Una mano guantata intrisa di sangue spuntò dal foro a forma di mezzaluna sul suo lato della barricata. Un ronzio ovattato arrivò dall’interno della tuta spaziale. Stava cercando di parlare.
Lei corse al suo fianco. Lui appoggiò la testa contro il lato esterno della barricata, gridando dall’interno del casco: — Morti! — e aggiunse: — Sono morti!
— Togliti il casco! — disse Nora.
Lui scrollò la spalla destra all’interno della tuta. — Il mio braccio — disse.
Nora infilò una mano attraverso la fessura e l’aiutò a svitarsi il casco. Questo si staccò con uno schiocco e un risucchio d’aria e il familiare puzzo del suo corpo. Sotto le sue narici c’erano delle croste di sangue mezze disseccate e una nell’orecchio destro. Era stato decompresso.
Facendo molta attenzione, Nora gli passò la mano sulla guancia sudata. — Siamo vivi, no?
— Volevano ucciderti — lui spiegò. — Non potevo lasciarglielo fare.
— Lo stesso per me. — Nora si voltò e guardò in direzione di Paolo. — È stato come un suicidio, ucciderlo. Credo di essere morta.
— No. Noi apparteniamo l’uno all’altro. Dillo, Nora.
— Sì, è vero — lei annuì, e schiacciò il volto alla cieca contro il varco che li separava. Lui la baciò con l’intenso sapore salato del sangue.
La demolizione era stata completa. Kleo aveva finito il lavoro, era strisciata fuori con addosso una tuta spaziale e aveva inzuppato l’interno della Red Consensus con un appiccicoso veleno a contatto.
Ma Lindsay era arrivato là prima che lei se ne andasse. Aveva saltato il varco dello spazio vuoto, decomprimendosi, per prelevare una delle tute spaziali corazzate. Aveva sorpreso Kleo nella cabina di comando. Con la sua tuta sottile non era stata assolutamente in grado di tenergli testa; lui aveva lacerato la tuta, e lei era morta per il suo stesso veleno.
Perfino il robot di famiglia aveva sofferto danni. I due deputati l’avevano lobotomizzato quand’erano passati attraverso la stanza delle esche. Le operazioni accanto all’anello di lancio si svolgevano ad una velocità frenetica. Il robot, spogliato del cervello, caricava una tonnellata dopo l’altra di carbone grezzo dentro il già stracolmo ed eruttante “ware” organico, una schiumante massa di plastica veniva emessa a fiotti dentro l’anello di lancio, che era stato anch’esso rovinato dalla slittata della gabbia di lancio. Ma questo era il minore dei loro problemi.
Il peggiore, era la sepsi. I microrganismi portati dallo Zaibatsu stavano seminando la distruzione fra i delicati biosistemi di ESAIRS XII. Cinque settimane dopo il massacro, il giardino di Kleo era ridotto a una lebbrosa parodia.
Le creature rimodellate del giardino della plasmatrice ammuffivano e si sbriciolavano al crudo tocco dell’umanità. La vegetazione assumeva strane forme mentre soffriva e si deformava, i suoi steli si arricciavano come tanti cavaturaccioli in una perversione della crescita che li vedeva imputridire e ridursi in polvere. Lindsay visitava tutti i giorni il giardino e proprio la sua presenza contribuiva ad accelerare la corruzione. Quel posto aveva ormai l’odore dello Zaibatsu, e i polmoni gli facevano male a causa della nostalgia che provava per quell’amato olezzo.
Se l’era portato dietro. Non importava quanto velocemente si spostasse, si trascinava dietro la fatale scia del passato.
Lui e Nora non se ne sarebbero mai liberati. Non era soltanto il contagio o il suo braccio inutilizzabile. E neppure la galassia delle eruzioni cutanee che avevano sfigurato Nora per giorni e giorni, incrostando la sua pelle perfetta e riempiendo i suoi occhi di siliceo stoicismo. Risaliva ai tempi dell’addestramento che avevano condiviso, al danno che gli era stato fatto. Li rendeva solidali, partner, e Lindsay si era reso conto che quella era la cosa più bella che la vita gli avesse mai offerto.
Pensò alla morte mentre guardava il robot plasmatore intento al suo lavoro. Incessantemente, instancabilmente, questo caricava il minerale grezzo dentro le budella tese dal “ware” organico delle esche. Dopo che loro due fossero morti soffocati, quella macchina avrebbe continuato indefinitamente nella sua iperattiva parodia della vita. Avrebbe potuto spegnerlo, sì, ma provava una certa affinità con esso. In qualche modo quella sua cieca ed entusiastica persistenza lo incoraggiava. E il fatto che stesse pompando tonnellate di plastica schiumeggiante nell’anello di lancio, rovinandolo, significava che i pirati avevano vinto. Lui non poteva sopportare l’idea di derubarli di quell’inutile vittoria.
A mano a mano che la loro aria diventava più fetida, furono costretti a ritirarsi, chiudendo ermeticamente le gallerie alle loro spalle. Rimasero vicino agli ultimi giardini industriali ancora funzionanti, respirando quanto meno possibile per non consumare l’aria che profumava di fieno, facendo l’amore e cercando di guarirsi a vicenda.
Con Nora, Lindsay rientrò nella vita dei Plasmatori, con le sue sottigliezze, le sue allusioni, il suo brio doloroso. E, a poco a poco, lentamente, insieme a lui, i lati più taglienti di Nora vennero smussati. Lei perse le sue peggiori stranezze, i nodi più duri da sciogliere, i più insopportabili livelli di tensione.
Abbassarono la corrente, cosicché le gallerie divennero più fredde, ritardando il diffondersi del contagio. Durante la notte si stringevano l’uno all’altro per scaldarsi, avvolti in un sudario grande come un tappeto che Nora aveva intessuto.
Nora non era disposta ad arrendersi. Aveva un nucleo d’energia innaturale che Lindsay non era in grado di eguagliare. Per giorni aveva lavorato alle riparazioni in sala radio, anche se sapeva che era inutile.
Il Servizio di Sicurezza dell’Anello dei Plasmatori aveva smesso di trasmettere. I loro avamposti militari erano diventati una fonte d’imbarazzo. I Mechanist li stavano evacuando, e rimpatriavano gli equipaggi dei Plasmatori riportandoli al Consiglio dell’Anello con squisita cortesia diplomatica. Non c’era mai stata nessuna guerra. Nessuno combatteva. I cartelli si stavano garantendo il controllo dei loro clienti pirati rappacificandoli in tutta fretta.
Tutto questo li stava aspettando, se soltanto fossero riusciti a far sentire la loro voce. Ma le loro trasmittenti erano rovinate; i circuiti non erano sostituibili e nessuno di loro due era un tecnico. Lindsay aveva accettato la morte. Nessuno sarebbe venuto a salvarli: avrebbero certamente pensato che l’avamposto fosse stato spazzato via. Alla fine, pensò Lindsay, qualcuno sarebbe venuto a controllare, ma non prima di molti anni ancora.
Una notte, dopo aver fatto l’amore, Lindsay rimase sveglio, gingillandosi con il braccio meccanico del pirata morto. L’affascinava, ed era fonte di appagamento: morendo giovane, pensava Lindsay, era per lo meno sfuggito a quello. Il suo braccio destro aveva quasi completamente perduto ogni sensibilità, i nervi avevano continuato a deteriorarsi da quando c’era stato l’incidente con la pistola, e le ferite che si era fatto in battaglia erano servite soltanto ad accelerare il deterioramento.
— Quei dannati cannoni — disse ad alta voce. — Un giorno, qualcuno troverà questo posto. Dovremmo fare a pezzi quei fottuti cannoni, mostrare al mondo che avevamo un po’ di decenza. Lo farei io, ma non sopporto l’idea neppure di toccarli.
Nora era insonnolita. — E allora? Non funzionerebbero lo stesso.
— Certo… sono disarmati. — Quello era stato uno dei suoi trionfi. — Ma potrebbero venir riarmati. Sono il male, tesoro. Dovremmo fracassarli.
— Se te ne importa così tanto… — Gli occhi di Nora si aprirono. — Abelard, e se ne facessimo sparare uno?
— No — lui ribatté prontamente.
— E se facessimo saltare la Consensus con il raggio a particelle? Qualcuno la vedrebbe.
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