Il Presidente della Camera rovistò dentro la valigetta, appoggiandovi contro un ginocchio poiché si trovava in caduta libera. Con uno strappo tirò fuori il bottino di Lindsay. Era la testa recisa della yarite.
La donna lasciò cadere la testa con un soffio improvviso da gatto scottato. — Prendetelo! — urlò il Presidente.
Due dei senatori rimbalzarono dalle pareti della nave spaziale e afferrarono le braccia e le gambe di Lindsay con una dolorosa presa di jujitsu.
— Sei tu l’assassino! — urlò il Presidente. — Tu sei stato assunto da qualcuno per far fuori la mechanist! Non c’è nessun bottino! — Guardò la testa costellata di prese con una smorfia di disgusto. — Mettila nel riciclatore — ordinò a uno dei deputati. — Non voglio avere una cosa del genere dentro questa nave. Aspetta un momento — aggiunse, mentre il deputato chiudeva le dita, esitante, su una ciocca di quei radi capelli. — Prima portala in officina e tirale fuori tutti i circuiti. — Si rivolse a Lindsay: — Così, è questo il tuo gioco, eh, cittadino? Un assassino?
Lindsay si aggrappò a questa nuova possibilità. — Sì — disse istintivamente. — Qualunque cosa vogliate.
Vi fu un silenzio sinistro, al quale si sovrapponevano lontani crepitìi termici provenienti dai motori della Red Consensus.
— Buttiamo fuori dalla camera di equilibrio questo asino — suggerì il Presidente della Camera.
— Non possiamo farlo — intervenne il Supremo Magistrato della Corte Suprema. Era un debole, vecchio mechanist che andava soggetto al sangue dal naso. — È ancora Segretario di Stato e non può venir condannato senza essere stato incriminato dal Senato.
I tre senatori, due uomini e una donna, si mostrarono interessati. Il Senato non svolgeva mai una grande attività nel governo della minuscola Democrazia. Erano i membri meno fidati dell’equipaggio, ed erano superati numericamente dalla Camera.
Lindsay scrollò le spalle, e fu un’eccellente scrollata di spalle. Aveva catturato i moti muscolari istintivi del volto del Presidente, e quella mimica subliminale disinnescò la situazione, procurandogli l’istante cruciale che gli ci voleva per cominciare a parlare. — È stato un lavoro politico. — La sua voce suonò noiosa, il suono greve d’un affaticamento morale. Disinnescò la loro brama di sangue, trasformò la situazione in qualcosa di prevedibile e fastidioso. — Lavoravo per conto della Repubblica Corporativa del Mare della Serenità. C’è stato un colpo di stato, laggiù. Stanno per spedire una grossa porzione della loro popolazione nello Zaibatsu, e volevano che spianassi la strada.
Gli credevano. Aveva infuso un po’ di colore nella propria voce. — Ma sono dei fascisti. Io preferisco servire un governo democratico. Inoltre, mi hanno messo un “antibiotico” alle calcagna… per lo meno, penso che siano stati loro. — Sorrise e allargò le mani con fare innocente, torcendo le braccia nella stretta allentata dei suoi catturatori. — Non vi ho mentito, vero? Non ho mai sostenuto di non essere un assassino. Inoltre, pensate ai soldi che vi ho fatto guadagnare.
— Sì, c’è anche questo, effettivamente — ammise il Presidente, riluttante. — Ma dovevi proprio segarle la testa?
— Eseguivo degli ordini — spiegò Lindsay. — Sono bravo a farlo, signor Presidente. Prova a usarmi.
A bordo della Red Consensus
13-6-’16
Lindsay aveva rubato la testa del cyborg per liberare Kitsune, per garantire che il suo gioco di potere non venisse alla luce. L’aveva ingannata, ma, per scusarsi di questo, l’aveva liberata. L’assassino plasmatore ne sarebbe stato incolpato. Sperò che la Banca Geisha facesse a pezzi quell’uomo.
Accantonò ogni sensazione di orrore. I suoi maestri plasmatori gli avevano insegnato a guardarsi da simili sentimenti. Quando un diplomatico si trovava proiettato in un nuovo ambiente, doveva reprimere tutti i pensieri del passato e assorbire immediatamente quanta più colorazione protettiva possibile.
Lindsay si affidò al suo addestramento. Trovandosi schiacciato in mezzo a un ambiente piccolo come quello, insieme agli undici membri della nazione di Fortuna, avvertiva la sintomatologia di quell’ambiente quasi come una pressione fisica. Sarebbe stato difficile mantenere il senso della prospettiva restando intrappolato in un barattolo come quello, insieme a undici pazzoidi.
Lindsay non si era più trovato dentro una vera nave spaziale fin dai giorni di scuola del Consiglio dell’Anello dei Plasmatori. Il trasporto mech che l’aveva portato in esilio non contava: i suoi passeggeri erano carne drogata. La Red Consensus era una nave vissuta: era in servizio da duecentoquindici anni.
Nel giro di pochi giorni, basandosi su indizi presenti all’interno della nave spaziale, Lindsay imparò di più della sua storia di quanto ne sapessero gli stessi minatori di Fortuna.
I ponti della Red Consensus che fungevano da alloggi erano appartenuti un tempo ad un’entità nazionale terrestre, un gruppo estinto che si faceva chiamare Unione Sovietica, o CCCP. I ponti erano stati lanciati dalla Terra per formare una serie di stazioni difensive orbitali.
La nave era cilindrica, e i suoi alloggi erano costituiti da quattro ponti rotondi interconnessi. Ogni ponte era alto quattro metri e largo dieci. Un tempo erano stati equipaggiati con delle rozze camere d’equilibrio di sicurezza fra un livello e l’altro, ma queste erano state strappate via e sostituite con moderni filamenti a pressione autosigillanti.
Il ponte di poppa era stato ripulito del tutto fino a lasciare le sole pareti imbottite. I pirati l’usavano per fare ginnastica e addestrarsi al combattimento in caduta libera. Lì avrebbero potuto dormire, anche se, non esistendo il giorno e la notte, era probabile che si addormentassero dovunque e in qualunque momento.
Il ponte seguente, più vicino a prua, conteneva la loro angusta sala chirurgica e l’infermeria, oltre alla “scacciasudori”, dove andavano a ripararsi dalle tempeste solari, dietro alcuni schermi di piombo. Nello “sgabuzzino delle scope”, una dozzina di antiquate tute spaziali penzolavano flosce accanto ad una rastrelliera piena di bombole di plastica laccata, maschere antigas, blocchi automatici, morse, e altri arnesi da “esterno”. Quel ponte aveva una sua camera d’equilibrio, una di quelle vecchie, blindate, che si apriva sull’esterno, la quale ostentava ancora una serie di adesivi mezzo staccati con le istruzioni per il funzionamento, in verdi lettere cirilliche maiuscole.
Il ponte successivo era la sezione della sopravvivenza, piena di gorgoglianti contenitori di alghe. Era una lezione oggettiva di riciclaggio, ma non di quelle che Lindsay gradiva molto. Questo ponte disponeva anche di una piccola officina: era minuscola, ma la mancanza di gravità consentiva di usare ogni superficie disponibile per lavorare.
Il ponte di prua conteneva la cabina di comando e i collegamenti con i pannelli solari per la corrente elettrica. Lindsay finì per amare quel ponte più di qualunque altro, soprattutto a causa della musica. La cabina di comando era anch’essa di vecchio tipo, ma neppure lontanamente vecchia come la stessa Red Consensus. Era stata progettata da qualche dimenticato teorico dell’industria il quale credeva che gli strumenti dovessero far uso di segnali acustici. L’ammasso di sistemi sparpagliato lungo un ampio pannello semicircolare aveva pochi rivelatori ottici. I sistemi segnalavano le loro funzioni con borbottii, cigolii e continui bip modulari.
Bizzarri a tutta prima, i suoni erano concepiti per placare il cervello posteriore. Qualunque cambiamento del coro, tuttavia, veniva immediatamente captato. Lindsay trovava calmante quella musica, una combinazione di pulsazioni cardiache e cerebrali.
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