Margaret Weis - Ambra e cenere

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La Guerra delle Anime si è finalmente conclusa. La lotta per la supremazia che gli dei hanno combattuto senza esclusione di colpi con le armi della magia ha lasciato il continente di Ansalon nella più completa desolazione e sovvertito i precedenti equilibri di potere. Mina, una misteriosa donna-guerriero, non si rassegna tuttavia alla propria sconfitta e stringe un patto con il diavolo. Mentre un culto satanico si diffonde e minaccia un mondo già fragile e provato, i nostri eroi, un eccentrico monaco e un kender in grado di comunicare con i defunti, si alleano per arginare le forze del maligno.

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Rhys alzò lo sguardo verso il cielo stellato.

«Zeboim», gridò, col fiato corto. «Vostro figlio è al sicuro in mio possesso. Tocca a voi adesso.»

Il mare si agitò. Nubi grigie, ammassate all’orizzonte, attendevano l’ordine di attaccare. Anche Rhys attendeva, fiducioso che da un momento all’altro la dea li avrebbe trasportati via da quell’isola.

Un unico fulmine saettò dal cielo fino a terra. Colpendo la sommità della torre, il fulmine fece saltare via un grosso pezzo di pietra. Rimbombò un tuono, distante in lontananza. Rhys era in piedi nel cortile, con il kender e il pezzo del khas nella bisaccia.

I pesanti stivali del cavaliere della morte si avvicinavano rimbombando.

L’orripilante attacco della mantide aveva fatto impazzire di paura Krell. Nessun mortale poteva infliggere dolore a un cavaliere della morte, ma un dio sì, e Krell conobbe la sofferenza e il terrore quando le mandibole dell’insetto gli masticarono l’anima, mentre quegli orribili occhi tondeggianti riflettevano il nulla dell’esistenza maledetta del cavaliere della morte.

Krell aveva sempre detestato gli insetti.

In preda al panico, riuscì a portare a segno alcuni pugni e questi furono sufficienti per staccarsela di dosso. Krell strappò via la spada dal fodero e conficcò la lama nel corpo dell’insetto. Zampillò fuori sangue verde. Le mascelle della mantide scattarono orribilmente. I suoi artigli aculeati sferzarono Krell.

Krell portò furiosi colpi di taglio contro la mantide, colpendola ripetutamente. Sferrava colpi alla cieca, agitando il braccio, senza capire che cosa stesse colpendo, desiderando soltanto quell’insetto morto, morto, morto. Gli ci vollero alcuni istanti per rendersi conto che sferzava l’aria.

Krell si fermò, si guardò attorno timoroso.

La mantide non c’era più. Il bastone del monaco era lì, disteso a terra. Krell sollevò il piede, pronto a calpestare il bastone e a ridurlo in frammenti. Rimase col piede sospeso in aria. E se toccandolo avesse fatto ritornare l’insetto? Lentamente Krell abbassò il piede a terra e si allontanò. Tenendosi il più lontano possibile dal bastone, gli girò con cautela attorno.

Krell sbirciò sotto il tavolo. Il pezzo del cavaliere non c’era, e nemmeno il kender.

Krell guardò il tabellone. L’altro cavaliere era ancora lì, fermo sul suo esagono. Lo raccolse, lo osservò speranzoso, poi lo scagliò via con un’amara imprecazione.

Poiché durante il furto il cavaliere della morte aveva avuto la visuale bloccata dalla gigantesca mantide che cercava di mangiargli la testa, Krell non aveva realmente visto Rhys scappare via col pezzo del khas. Ma il cavaliere della morte non ebbe alcuna difficoltà a immaginare che cosa fosse successo. Si mise all’inseguimento del monaco, spronato dalla terribile consapevolezza di ciò che gli avrebbe fatto Chemosh se avesse perduto Ariakan.

Krell si precipitò fuori nel cortile. Vide Rhys a una certa distanza più avanti, che correva a perdifiato. Vide anche le nubi temporalesche, grigie e minacciose, radunarsi in alto. Un fulmine colpì una delle torri. Il fulmine successivo, Krell aveva questa sensazione, sarebbe stato mirato contro di lui.

«Giù le mani da me, Zeboim!» urlò Krell, con una finzione disperata. «Il vostro monaco ha rubato il pezzo sbagliato del khas. Vostro figlio è ancora in mio possesso. Se farete qualcosa per aiutare questo ladro a fuggire, Chemosh fonderà il vostro bel ragazzo di peltro e gli martellerà l’anima fino all’oblio!»

I fulmini balenarono di nube in nube; il tuono emise un ringhio cupo e minaccioso. Si alzò il vento, i cieli si fecero scuri e ancora più scuri. Cadde qualche goccia di pioggia, assieme a un paio di chicchi di grandine.

E finì lì.

Krell ridacchiò e, strofinandosi le mani, inseguì il monaco.

Rhys udì l’urlo di Krell e si sentì mancare il cuore.

«Zeboim!» gridò con impazienza Rhys. «Sta mentendo. Ho io vostro figlio! Portateci via di qui!»

Balenò un fulmine. Il rombo del tuono era soffocato. Le nubi che roteavano in alto erano confuse, incerte. Il cavaliere della morte attraversava di corsa la piazza d’armi. Con i pugni serrati, gli occhi rossi infuocati, Krell avanzava, infiammato d’ira. Quando avesse preso Rhys, gli avrebbe fatto ben di più che spezzargli qualche dito.

«Maestà», pregò Rhys, «abbiamo rischiato la vita per voi. Adesso è ora che voi rischiate qualcosa per noi».

La pioggia scendeva con piccoli tonfi discontinui tutto attorno a lui. Il vento sospirò e rinunciò. Le nubi presero a ritirarsi.

«Molto bene, maestà», disse Rhys. Si strappò via dalla cintola la bisaccia. «Perdonatemi per quello che sto per fare, ma non mi lasciate altra scelta.»

Afferrando la bisaccia con la mano buona, Rhys si guardò attorno, orientandosi, valutando le distanze. Questa sarebbe stata la sua ultima mossa, avrebbe consumato tutte le forze che gli rimanevano. Si lanciò nel suo scatto finale.

I cieli si aprirono. La pioggia cadde pesante, martellandolo. Rhys ignorò l’avvertimento della dea. Poteva dare in escandescenze, esplodere e minacciare quanto voleva. Non avrebbe osato fargli niente di drastico, perché lui poteva davvero avere in proprio possesso suo figlio.

Zeboim provò a farlo incespicare. Rhys si tirò su e riprese a correre. La dea gli scagliò chicchi di grandine in faccia. Lui tirò su il braccio per proteggersi gli occhi e proseguì.

Krell gli andava dietro a passi pesanti. I passi del cavaliere della morte facevano tremare il terreno.

Rhys scivolava e incespicava, le forze gli venivano meno. Non aveva molta strada da percorrere, però. La piazza d’armi terminava su un’accozzaglia di rocce, e al di là vi era il mare.

Krell vide il pericolo e accelerò il passo.

«Fermatelo, Zeboim», gridò irosamente Krell. «Altrimenti ve ne pentirete!»

Rhys si infilò nel pettorale della veste la bisaccia contenente il kender e il pezzo del khas e si arrampicò sulle rocce frastagliate che erano bagnate e scivolose per la pioggia. Scivolò, dovette usare entrambe le mani per rimanere in equilibrio, e singhiozzò per il dolore provocato dalle dita spezzate.

Udiva dietro di sé il respiro sibilante di Krell e ne percepiva la furia. Rhys continuò ad avanzare.

Le sue forze erano ormai esaurite quando raggiunse il margine dell’isola. A quel punto non ne aveva più bisogno, comunque. Aveva soltanto un ultimo passo da compiere e questo non gli avrebbe richiesto molta energia.

Rhys guardò giù. Si trovava in cima a un dirupo scosceso. Sotto di lui, molto più sotto di lui, il mare si sollevava e si gonfiava e si schiantava sulla parete rocciosa. L’ira e la paura della dea illuminavano la notte fino a renderla chiara quanto il giorno. Rhys notò piccoli dettagli: la spuma turbinante, la distesa verde di alghe trascinata via da uno scoglio luccicante, a galleggiare sulla superficie come i capelli di un annegato.

Rhys guardò lontano oltre il mare verso l’orizzonte, avvolto nella foschia e nella pioggia battente.

Krell aveva raggiunto le rocce e le risaliva annaspando, imprecando e maledicendo e agitando la spada.

Muovendosi attentamente in modo da non scivolare, Rhys si arrampicò su una sporgenza che si protendeva sul mare. Rimase sospeso, con l’animo calmo.

«Tieni duro, Nightshade», disse Rhys. «Sarà un po’ burrascoso.»

«Rhys!» piagnucolò il kender, terrorizzato. «Che stai facendo? Non vedo niente!»

«Meglio così.»

Rhys sollevò il viso verso il cielo.

«Zeboim, siamo nelle vostre mani.»

Stava in piedi come sulla verde collina, con le pecore distribuite su di essa in un ammasso bianco, Atta in posizione al suo fianco, a guardarlo in faccia, dimenando la coda, in impaziente attesa del comando.

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