«Atta, via», disse Rhys, e saltò.
La notte filtrava dalle profondità del Mare di Sangue, diffondendosi a macchia d’inchiostro nell’acqua, spingendosi delicatamente verso la superficie. Mina alzò lo sguardo, osservando l’ultimo vestigio della tremolante luce solare luccicare sulla superficie dell’acqua. Quindi la luce scomparve, e Mina rimase nell’oscurità assoluta.
Durante le ore che avevano trascorso in attesa, osservando la torre nel Mare di Sangue, Mina e Chemosh non avevano visto nessuno entrarvi, nessuno uscirvi. Le creature marine passavano accanto alle pareti di cristallo con la stessa indifferenza con cui passavano accanto alla barriera corallina o allo scafo di una nave naufragata adagiata sul fondo del mare. I pesci sfioravano le pareti, percorrendo in su e in giù la superficie liscia, trovando da mangiare o affascinati dal loro stesso riflesso. Nessuno sembrava avere paura della Torre, anche se Mina notò che le creature marine evitavano quello strano cerchietto in oro giallo-rosso e argento sulla sommità. Nessuno si avvicinava al buco nero centrale.
All’arrivo della notte sotto le onde, Chemosh rimase a guardare per vedere se nella Torre comparissero delle luci.
«Nella Torre di Istar vi erano finestre», rammentò, «anche se di giorno non si vedevano. Non si vedeva altro che le pareti di cristallo lisce e perpendicolari. Quando calava la notte, però, i maghi nelle loro stanze accendevano le lampade. La Torre luccicava di puntini di fuoco. La gente di Istar diceva che i maghi avevano catturato le stelle e le avevano portate in città a loro regale gloria».
«La Torre deve essere deserta, mio signore», suggerì Mina. Annaspò nel buio cercando la mano di lui, lieta di percepire il suo contatto, di udire il suono della voce di Chemosh. L’oscurità era assoluta al punto che Mina incominciava a dubitare della propria realtà. Doveva sapere che il dio era con lei. «Non sembra esservi nulla di sinistro. I pesci ci vanno proprio vicino.»
«I pesci non sono noti per la loro intelligenza, qualunque cosa in contrario dica Habbakuk. Comunque, come dici tu, non abbiamo visto nessuno avvicinarsi a questo luogo. Andiamo a indagare.» Svincolò la mano dalla stretta di Mina e si allontanò.
«Mio signore», chiamò Mina, allungando la mano verso di lui. «I miei occhi di mortale sono ciechi in questo buio. Non vi vedo. Non vedo neanche me stessa! Più di preciso, non vedo dove sto andando. Potete in qualche modo rischiararmi il cammino?»
«Chi vede può anche essere visto», disse Chemosh. «Io preferisco rimanere avvolto nell’oscurità.»
«Allora dovete guidarmi, mio signore, come il cane guida un mendicante cieco.»
Chemosh la prese per mano e la trainò rapidamente nell’acqua, senza alcuna differenza tra questa e l’aria. L’acqua scorreva oltrepassando Mina, fluendole sul corpo. A un certo punto, dei tentacoli le sfiorarono il braccio e lei si ritrasse di scatto. La creatura provvista di tentacoli non la inseguì. Forse Mina aveva un cattivo sapore. Se Chemosh notò la creatura, non le prestò attenzione. Continuò ad avanzare, ansioso e impaziente.
Mentre si avvicinavano alla Torre, Mina si rese conto che le pareti brillavano di una debole fosforescenza, di colore azzurro-verdastro. Quella luce misteriosa ricopriva le pareti di cristallo, conferendo alla Torre un’aria spettrale.
«Aspettami qui», disse Chemosh, lasciando andare la mano di Mina.
Mina galleggiò nel buio, osservò il dio avvicinarsi alla Torre. Chemosh passò le mani sulla superficie liscia delle pareti e scrutò attraverso quei muri di cristallo, cercando di vedere dentro.
Il cristallo rifletteva verso di lui la sua stessa immagine.
Chemosh allungò il collo. Guardò in su e in giù e tutto attorno. Scrollò il capo, profondamente perplesso.
«Non ci sono finestre», disse a Mina. «Né porte. Nessun modo per entrare, che io veda, eppure deve esserci. L’ingresso è nascosto, ecco tutto.»
Si spostò lungo le pareti, cercando con le mani oltre che con gli occhi. Mina vedeva la silhouette di Chemosh, nera contro il bagliore fosforescente verde. Lo seguì con lo sguardo fintanto che poté, poi lui scomparve, superando un angolo dell’edificio.
Mina rimase sola, completamente sola, come si trovasse sull’orlo del Caos.
Era arsa dalla sete e affamata. La fame poteva sopportarla; era rimasta senza mangiare durante molte lunghe marce con il suo esercito. La sete era un’altra questione. Si domandò come potesse avere sete, se aveva la bocca piena d’acqua, anche se l’acqua sapeva di sale e il sale le accresceva la sete. Non sapeva quanto a lungo sarebbe potuta sopravvivere senza bere, prima che il bisogno di acqua diventasse critico e lei dovesse confessare a Chemosh di non essere più in grado di proseguire. Avrebbe dovuto rammentargli ancora una volta che lei era una mortale.
Chemosh ritornò all’improvviso, stagliandosi imponente nel buio.
«Certo, erano passati molti secoli da quando avevo visto l’ultima volta questa Torre, eppure qualcosa non mi quadrava. Ho capito che cosa non va. Almeno un terzo della Torre rimane sepolto sotto il fondo marino. Lì vi è presumibilmente anche l’ingresso. Ai vecchi tempi, conduceva dentro la Torre un’unica porta e adesso quella porta è sepolta nella sabbia. Io non riesco a trovare altro modo...»
Chemosh si interruppe, con lo sguardo fisso. «Le vedi?»
«Le vedo, mio signore», rispose Mina, «ma non sono sicura di crederci».
In profondità dentro la Torre si accesero le luci. Prima una. Poi un’altra. Piccoli globi di luce biancoazzurra comparvero su piani diversi della Torre: alcuni molto più in alto di loro, presso la sommità; altri giù in basso. Alcune luci parevano risplendere dalle profondità dell’interno della Torre, altre più vicino alle pareti di cristallo.
«Sono come me le ricordavo», disse Chemosh. «Stelle tenute prigioniere.»
Le luci erano come stelle, fredde e dai margini aguzzi. Non illuminavano niente, non emettevano calore, né splendore. Mina ne osservò attentamente una. «Come se qualcuno o qualcosa ci fosse passato davanti.»
«Dove? Quale luce?»
«Lassù, circa due piani. Mio signore», soggiunse Mina, «voi potete entrare nella Torre. Voi siete un dio. Queste pareti, non importa se massicce o illusorie, non possono fermarvi».
«Sì», rispose lui, «ma tu no».
«Voi dovete entrare, mio signore», lo spronò Mina. «Io vi aspetterò fuori. Quando troverete un ingresso, verrete a prendermi.»
«Non mi piace lasciarti sola», disse Chemosh, eppure era tentato.
«Vi chiamerò se avrò bisogno di voi.»
«E io verrò, anche se sarò all’estremità dell’universo. Aspettami qui. Non ci metterò molto.»
Nuotò verso la parete di cristallo, nuotò attraverso la parete di cristallo. Il buio, caldo e soffocante, opprimeva Mina.
Mina continuava a osservare le luci simili a stelle, concentrandosi su di esse e non sulla propria sete, che si faceva acuta. Contò otto luci sparse per tutta la torre, e non ce n’erano due sullo stesso piano, se vi erano piani. Nessuna di esse era intermittente, tutte risplendevano di continuo.
Sentì la mancanza di Chemosh, della sua voce. Il silenzio era denso e pesante quanto il buio. All’improvviso, piuttosto vicino a lei, si illuminò una nona luce.
Questa luce era diversa dalle altre. Era di colore giallo e pareva più calda, più luminosa.
«Posso restare qui, senza pensare a niente a parte il silenzio insopportabile e il sapore dell’acqua fresca sulla lingua, oppure posso andare a scoprire la fonte di questa luce.»
Mina si spinse attraverso l’acqua, un po’ nuotando, un po’ strisciando, muovendosi lentamente e furtivamente verso la strana luce.
Nell’avvicinarsi vide che non era un unico punto di luce, come lei aveva inizialmente supposto, ma molteplici luci, come un gruppo di candele. Mina si rese conto che le luci parevano diverse, più calde, più luminose, perché erano al di fuori delle pareti. Vedeva la luce rispecchiarsi sulla superficie di cristallo. Si avvicinò, curiosa.
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