«Non l’ho mai conosciuto», convenne Mina, «ma non l’ho mai dimenticato. Né ho dimenticato ciò che gli devo». Si sedette a poppa, prese la barra del timone. «Chiedete la benedizione di Zeboim per me, volete? Ditele che vado a vendicare suo figlio.»
Diresse la barca verso il vento. La vela sbatté per un attimo, poi prese la brezza. Mina girò lo sguardo verso il mare aperto, verso i frangenti, verso la linea sottile e scura di nubi temporalesche che incombevano perennemente all’orizzonte.
«Già, bene, se qualcosa può far felice la Strega del Mare, è proprio questo», osservò il pescatore, guardando la barca sollevarsi all’incontro con la prima ondata.
Un’onda strana colpì il molo, si riversò sul pescatore e lo inzuppò da capo a piedi.
«Sto andando, Padrona!» urlò ai cieli e scappò via più in fretta che poté per offrire metà del suo denaro al grato chierico della dea del mare.
La prima parte del viaggio di Mina fu pacifica. Una forte brezza spingeva la barca a vela sopra le onde, trasportandola sempre più lontano da riva. Mina non aveva paura del mare, il che era strano, considerando che aveva avuto esperienza di una tempesta e di un naufragio. Non aveva però alcun ricordo né dell’una né dell’altro. Si ricordava (e vagamente) soltanto di essere stata cullata dalle onde, dondolata delicatamente, fatta addormentare dalla ninnananna.
Mina era una marinaia esperta, al pari di quasi tutti coloro che vivevano sull’isola di Schallsea, dove era ubicata la Cittadella della Luce. Sebbene Mina non governasse un’imbarcazione da molti anni, le capacità che le servivano le ritornarono. Dirigeva la barca contro le onde, sollevandosi sulla cresta (una sensazione entusiasmante, come si potesse continuare a salire fino al cielo) e poi cadendo giù, scivolando nel solco schiumante dell’onda, con la spuma del mare a spruzzarle il viso. Si leccava le labbra, assaporando il sale. Scrollandosi all’indietro i capelli bagnati, si chinava in avanti, ansiosa di incontrare l’onda successiva. Perse di vista la terra.
Il mare si fece più agitato. Le nubi temporalesche che prima erano state una linea scura all’orizzonte adesso erano una massa plumbea intersecata da fulmini, che si addensava costantemente. Per pochi preziosi istanti Mina fu sola nel mondo, sola con i propri pensieri.
Pensieri che andavano sempre a Chemosh.
Cercò di capire la propria attrazione per lui, di capire perché lei si trovasse là fuori in quella barca fragile, a rischiare la vita per sfidare la potenza della dea del mare, per dimostrare il proprio amore per il Signore della Morte.
Uomini mortali, come quel disgraziato elfo, la adoravano. Galdar le era stato amico, ma perfino lui era in soggezione verso di lei. Chemosh era stato il primo a guardarle dentro, in profondità, a vedere i suoi sogni, i suoi desideri... desideri che lei non aveva mai conosciuto finché il tocco di lui non li aveva destati.
Non aveva mai percepito la propria carne finché lui non l’aveva accarezzata. Non aveva mai udito il proprio cuore battere finché lui non le aveva posato la mano sul seno. Non aveva mai conosciuto la fame finché non lo aveva guardato negli occhi. Mai conosciuto la sete finché non aveva assaporato il bacio di lui.
Un fulmine balenò come un manto splendente nel cielo, abbagliandole gli occhi, strappandola bruscamente ai suoi sogni. Un fuoco azzurro tremolò in cima all’albero. Le onde si fecero più feroci, si schiantarono contro la barca, strappandole di mano la barra del timone. Il vento sferzava tutto attorno a lei. La vela sbatteva e la barca fu sul punto di colare a picco. Mina si tirò verso poppa, col vento che la sferzava e la lacerava, la barca che beccheggiava e rollava al punto che lei doveva lottare per mantenere l’equilibrio.
«Torna indietro», la stava avvertendo il mare. «Torna indietro e ti lascerò vivere.»
La pioggia le spruzzava il viso. Mina digrignò i denti, che masticarono sale. Riuscì ad ammainare la vela, anche se questa combatteva come un essere vivente. Riportandosi a fatica verso poppa, Mina si sedette, prese in mano la barra del timone e puntò la barca nelle fauci della tempesta.
«Per Lord Ariakan!» gridò.
Un’onda, che procedeva trasversalmente rispetto a tutte le altre onde, colpì Mina, scaraventandola fuori della barca e nel mare agitato dalla tempesta. Mina ansimò per respirare, inghiottì acqua e sprofondò sotto le onde. Con i polmoni che le scoppiavano, combatté l’impulso dettato dal panico di agitare le braccia e le gambe nel disperato tentativo di raggiungere la superficie. Scalciò forte, spingendosi su con lunghe e forti bracciate. Un altro calcio, mentre vedeva le stelle, quindi con la testa riemerse in superficie. Si riempì i polmoni di aria benedetta mentre sbatteva rapidamente gli occhi per eliminare l’acqua e cercare di vedere dove si trovasse.
Il peso dell’armatura la trascinò di nuovo giù. La barca era accanto a lei. Mina balzò verso l’imbarcazione, la afferrò prima che l’onda successiva la facesse sprofondare. Rimase aggrappata alla barca, si tenne stretta con tutte le forze, con la paura che adesso il mare facesse rovesciare la barca sopra di lei.
Arrivò un’altra onda, un’onda imponente. Mina pensò che le avrebbe dato il colpo di grazia, riducendo in pezzi la barca. Inspirò quanta più aria poté, decisa a lottare e continuare a lottare. L’onda la colpì, la trasportò in alto oltre la fiancata e la depositò sul fondo della barca.
Ansimante e scossa, Mina rimase distesa sul ponte colmo di acqua marina e sbatté gli occhi, che le pizzicavano per via del sale. Quando riuscì a vedere, scorse un piede (un piede nudo) posato sul ponte molto vicino alla sua testa. Il piede era aggraziato e spuntava da sotto l’orlo di una veste verde e azzurra, che sembrava intessuta in acqua marina.
Esitante, Mina sollevò la testa.
A poppa sedeva una donna, con la mano sulla barra del timone. Il mare infuriava attorno alla barca. Le onde che si riversavano sul ponte inzuppavano Mina, ma non toccavano quella donna. Aveva i capelli bianchi come la spuma del mare, gli occhi grigi come la tempesta, il viso bellissimo come il sogno di un marinaio, l’espressione sempre mutevole, sempre varia, cosicché un momento sorrideva a Mina, come fosse compiaciuta di lei oltre misura, e un momento dopo la guardava come volesse calpestarla con quel piede nudo e aggraziato e sfondarle il cranio.
«Così tu sei Mina», esordì Zeboim. Il labbro le si arricciò. «La cocca di mamma.»
«Ho avuto l’onore di servire Takhisis, vostra madre», disse Mina. Fece per tirarsi su.
«No, non alzarti. Resta in ginocchio. Lo preferisco.»
Mina rimase dov’era, accovacciata sulle ginocchia sul fondo della barca, che rollava e beccheggiava. Era costretta a reggersi forte alla battagliola per evitare di essere scagliata fuori di nuovo. Zeboim sedeva indisturbata, il vento marino a malapena le arruffava la chioma lunga e selvaggia.
«Tu hai servito mia madre.» Zeboim sogghignò. «Quella vacca.» Tornò a guardare Mina. «Lo sai che cosa mi ha fatto? Mi ha rubato il mondo. Ma naturalmente tu lo sapevi. Tu eri in confidenza con mia madre.»
«Non ero...» fece per spiegare Mina. «Non ho mai...»
La dea la ignorò, continuò a parlare, così Mina si zittì.
«Mia madre mi ha rubato il mondo. Mi ha rubato il mare, ha rubato quelli come te», Zeboim lanciò un’occhiata sprezzante a Mina, «i miei adoratori. Quella vacca me li ha portati via tutti e mi ha lasciata nell’oscurità infinita, da sola. Tu non puoi immaginare», disse, e la sua voce cambiò, si fece stridula per il dolore, «il silenzio terribile di un universo vuoto».
«Veramente non sapevo che cosa avesse fatto la dea», disse Mina a bassa voce. «Takhisis non mi disse niente di tutto questo. Non mi disse mai il suo nome. Io la conoscevo come Unico Dio, un dio che era venuto a prendere il posto degli dèi che ci avevano abbandonati.»
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