Margaret Weis - Ambra e cenere

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La Guerra delle Anime si è finalmente conclusa. La lotta per la supremazia che gli dei hanno combattuto senza esclusione di colpi con le armi della magia ha lasciato il continente di Ansalon nella più completa desolazione e sovvertito i precedenti equilibri di potere. Mina, una misteriosa donna-guerriero, non si rassegna tuttavia alla propria sconfitta e stringe un patto con il diavolo. Mentre un culto satanico si diffonde e minaccia un mondo già fragile e provato, i nostri eroi, un eccentrico monaco e un kender in grado di comunicare con i defunti, si alleano per arginare le forze del maligno.

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L’approdo era facilmente difendibile. L’insenatura era tanto piccola che soltanto una nave per volta poteva entrarvi con sicurezza e soltanto con la bassa marea. Una stretta scalinata intagliata sul fianco del dirupo offriva l’unico mezzo per accedere alla fortezza. Gli scalini erano tanto scivolosi e infidi che venivano poco usati. Per la maggior parte le provviste venivano trascinate su fino alla fortezza mediante un sistema di funi, argani e pulegge.

Mina si domandò, come facevano gli storici, come sarebbe potuto essere diverso il mondo se l’uomo geniale che aveva progettato questa fortezza fosse sopravvissuto alla Guerra del Chaos.

Il vento si smorzò quando Mina entrò nell’insenatura, e fu costretta a remare sull’acqua calma fino all’approdo.

L’insenatura era in ombra, poiché il sole stava calando a occidente, e l’insenatura si trovava sul lato orientale. Mina benedisse l’ombra, poiché sperava di cogliere di sorpresa Krell. La fortezza era enorme. L’approdo, ubicato a un’estremità dell’isola, era lontano dagli alloggi principali. Mina non aveva modo di sapere che Krell, in quel preciso momento, stava osservando ogni sua mossa.

Mina gettò la piccola ancora e assicurò la barca avvolgendo la cima attorno a una sporgenza rocciosa. In un passato lontano, vi era stato un molo di legno, ma da tempo era stato ridotto in frammenti dall’ira di Zeboim. Mina si arrampicò per uscire dalla barca. Guardò in su verso la scala di roccia nera, si accigliò e scrollò il capo.

Stretti e sgrossati, gli scalini serpeggiavano precariamente sul fianco del dirupo ed erano viscidi per le alghe e umidi per la spuma del mare. Come se non bastasse, la scalinata sembrava rosicchiata dai denti della vendicativa Regina del Mare. Molti scalini erano spezzati e incrinati, poiché l’ira di Zeboim era giunta a far tremare il terreno sotto i piedi di Krell.

«Non devo preoccuparmi di affrontare Krell», disse fra sé Mina. «Dubito di arrivare viva in cima alla scalinata.»

Comunque, come aveva detto a Chemosh, lei aveva percorso luoghi più bui. Ma non tanto scivolosi.

Mina tenne addosso la corazza: di acciaio nero, contrassegnata dal teschio colpito dal fulmine. Si legò l’elmo alla cintura di cuoio, poi con rammarico slacciò il resto dell’armatura. Arrampicarsi sarebbe stato già abbastanza pericoloso senza schinieri e bracciali. Portava alla cintola la sua arma preferita: la stella del mattino che aveva usato in battaglia durante la Guerra delle Anime. L’arma non era un oggetto sacro, né era incantata. Sarebbe stata inutile contro un cavaliere della morte. Nessun vero cavaliere sarebbe andato in battaglia disarmato, però, e lei voleva che Krell la vedesse come vero cavaliere di Takhisis. Sperava che la vista improvvisa e sbalorditiva di un suo ex confratello in arrivo senza preavviso sul Bastione della Tempesta rendesse esitante il cavaliere della morte, lo tentasse a conversare con lei, anziché ucciderla subito.

Mina controllò la cima, accertandosi che la barca fosse ben assicurata. Le passò per la mente che Zeboim avrebbe potuto facilmente sfondarle la barca e lasciarla bloccata sul Bastione, imprigionata con un cavaliere della morte. Mina scacciò quel pensiero con un’alzata di spalle. Non era mai stata una che si agitasse o si preoccupasse del futuro, forse perché era stata tanto vicina a una dea, la quale aveva sempre assicurato a Mina che il futuro era sotto controllo.

Avere imparato che perfino gli dèi possono avere torto non aveva modificato la sua concezione della vita. La rovinosa caduta di Takhisis aveva rafforzato in Mina la convinzione che il futuro si distendesse davanti a lei come quella scalinata infida scolpita nella roccia nera. Era meglio vivere la vita al presente. Mina poteva salire un solo scalino per volta.

Rivolgendo in cuor suo una preghiera a Chemosh e recitando ad alta voce una preghiera a Zeboim, Mina incominciò la sua ascesa sui dirupi del Bastione della Tempesta.

Avendo osservato Mina sbarcare nell’insenatura, Krell uscì dalla fortezza vera e propria e si avventurò su un sentiero stretto e tortuoso che procedeva a zigzag fra un’accozzaglia di rocce. Il sentiero conduceva a una vetta sporgente di granito, nota fra i cavalieri che un tempo erano di guarnigione qui col nome di monte Ambizione. Essendo il punto più alto dell’isola, la vetta era isolata, spazzata dal vento e spruzzata dal mare, ed era stata abitudine di Lord Ariakan passeggiare qui la sera, tempo permettendo. Qui si fermava a guardare verso il mare e a formulare i suoi piani per dominare Ansalon. Di qui il nome di monte Ambizione.

Nessuno dei cavalieri veniva qui col proprio comandante se non invitato espressamente. Non vi era onore più grande che essere invitati a scalare il monte Ambizione con Lord Ariakan, condividendone la passeggiata e i pensieri. Krell vi era venuto spesso col suo comandante. Era l’unico luogo che evitasse particolarmente durante la sua prigionia. Non sarebbe venuto qui adesso se non fosse stato per il fatto che questa vetta gli consentiva la migliore vista sull’insenatura e sull’approdo, nonché su quella macchiolina umana che cercava di arrampicarsi su per quella che i cavalieri chiamavano la scala nera.

Appollaiato fra le rocce, Krell guardò giù oltre il ciglio del dirupo verso Mina. Vedeva la vita pulsare in lei, vedeva il calore della vita illuminarla, come la fiamma di una candela illumina la lanterna. Quella vista gli fece percepire ancor più il freddo della morte, e Krell rivolse a Mina uno sguardo carico di disprezzo e di amara invidia. Avrebbe potuto ucciderla subito. Sarebbe stato facile.

Krell rammentò una passeggiata col suo comandante proprio lungo questa parte delle mura. Discutevano della possibilità di un assalto alla loro fortezza dal mare e valutavano se utilizzare o no gli arcieri per fare fuori i nemici che fossero stati abbastanza audaci o abbastanza stupidi da cercare di salire la scala nera.

«Perché sprecare frecce?» aveva detto Ariakan indicando con un gesto i macigni ammucchiati tutto attorno. «Basta scagliare pietre su di loro.»

I macigni erano di grosse dimensioni. Gli uomini più forti tra i cavalieri avrebbero dovuto impegnarsi a fondo per sollevarli e spingerli oltre le mura. Krell, egli stesso uno di quegli uomini forti incaricato di quel compito, era sempre rimasto deluso dal fatto che nessuno avesse mai tentato un assalto alla fortezza. Si era spesso immaginato il massacro che quei proietti sfreccianti avrebbero creato nel nemico: soldati colpiti dalle pietre che cadevano dalla scala, precipitando, urlanti, verso una morte cruenta e straziante sulle rocce scoscese sottostanti.

Krell fu fortemente tentato di sollevare uno di quei macigni e di scagliarlo su Mina, solo per constatare di prima mano l’annientamento che si era sempre immaginato con passione. Si sforzò di controllarsi. Incontrare a faccia a faccia questa assassina di cavalieri della morte era un’occasione rara, da non sprecare. La pregustava al punto che in effetti imprecò quando vide Mina scivolare e quasi cadere. Se avesse avuto fiato in corpo, l’avrebbe emesso con un sospiro di sollievo quando Mina riuscì a rimettersi in equilibrio e a proseguire l’ascesa lenta e faticosa.

L’aria era fresca, poiché al sole era raramente consentito di fare capolino tra le nubi che incombevano sul Bastione della Tempesta. Lo sforzo e l’improvviso lampo di terrore causato dallo scivolone quasi fatale fecero colare il sudore a Mina lungo il collo e il seno. Il vento che provocava un infinito lamento funebre tra le rocce le asciugò il sudore, facendola rabbrividire. Si era portata i guanti, ma scoprì di non poterli indossare. Più di una volta fu costretta a infilare le dita in fessure e spaccature per issarsi da uno scalino all’altro.

Ogni passo era precario. Alcuni scalini avevano grosse crepe che li attraversavano, e Mina doveva saggiarne ognuno prima di appoggiarci sopra il proprio peso. I muscoli delle gambe ben presto le diedero spasmi e dolori. Le dita le sanguinavano, le mani erano infiammate, le ginocchia sbucciate. Fermandosi per cercare di alleviare il dolore alle gambe, guardò su, sperando di essere vicino alla fine.

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