Alcune anime potevano andarsene ma sceglievano di non farlo. Una madre era riluttante ad abbandonare i figli piccoli; un marito non voleva lasciare la moglie. Queste rimanevano legate a coloro che amavano finché non si persuadevano che era giusto per loro proseguire, che i vivi dovevano andare avanti con la loro vita e anche i morti dovevano andare avanti.
Chemosh era in piedi nella Sala a osservare formarsi la fila di anime, una fila che doveva essere eterna, e si rammentò di quell’epoca terribile in cui la fila si era interrotta di colpo in maniera inaspettata. L’epoca in cui era comparsa davanti a lui l’ultima anima, e lui si era guardato attorno con uno stupore che non conosceva limiti. Il Signore della Morte si era alzato dal trono per la prima volta da quando aveva preso posto lì dall’inizio della creazione e si era precipitato fuori della Sala infuriato solo per scoprire che Takhisis aveva rubato il mondo e si era portata via le anime.
Chemosh aveva allora appreso la verità di un adagio dei mortali: non si apprezza mai ciò che si ha finché non lo si perde.
Inoltre si promette solennemente che non lo si perderà mai più.
Chemosh osservava le anime arrivare davanti a lui e ascoltava le loro storie e mercanteggiava e pronunciava il suo giudizio, e ne catturava alcune e ne lasciava andare altre, e aspettava di provare il caldo bagliore della soddisfazione.
In questo giorno non arrivava. Chemosh si sentiva decisamente insoddisfatto. Ciò che doveva andare bene stava andando tutto male. Aveva perso il controllo della situazione, e non aveva idea di come se lo fosse lasciato sfuggire. Era come se lui fosse stato maledetto...
A quella parola si rese conto all’improvviso perché fosse stato attirato qui, si rese conto di ciò che cercava.
Si trovava nella Sala delle Anime di Passaggio e vedeva di nuovo la prima anima che era arrivata davanti a lui quando il mondo era stato restituito: l’anima mortale di Takhisis. Tutti gli dèi erano stati presenti al suo passaggio. Chemosh udiva ancora le parole di lei, in parte supplica disperata e in parte ringhio di sfida.
«State commettendo un errore!» aveva detto loro Takhisis. «Ciò che io ho fatto non può essere disfatto. La maledizione è su di voi. Se distruggete me, distruggete voi stessi.»
Chemosh non poteva giudicarla. Nessuno degli dèi poteva farlo. Lei era stata una di loro, dopo tutto. Il Dio Supremo era venuto a rivendicare l’anima della figlia perduta, e il regno di Takhisis, Regina delle Tenebre, aveva avuto fine, e il tempo e l’universo erano andati avanti.
Chemosh all’epoca non aveva tenuto in nessuna considerazione la predizione di Takhisis. Chiacchiere, vaneggiamenti, minacce: Takhisis aveva sputato simili veleni per eoni. Chemosh non poté fare a meno di pensarci adesso, pensarci e domandarsi inquieto che cosa avesse voluto effettivamente dire la defunta e non compianta Regina.
C’era una sola persona che poteva saperlo, una sola persona che era stata vicina a Takhisis più di chiunque altro nella storia. L’unica persona che lui aveva scacciato dalla propria presenza.
Mina.
Nightshade si allontanò dalla grotta con un peso sul cuore: il cuore gli pesava troppo per restare nel petto, gli sprofondò nello stomaco, dove si offese per via della carne di maiale salata e gli fece venire il mal di pancia. Da lì il cuore sprofondò ulteriormente, aumentandogli il peso dei piedi cosicché questi si muovevano sempre più lenti, finché non divenne uno sforzo anche il minimo movimento. Il cuore gli si faceva sempre più pesante quanto più lui si allontanava.
Il cervello di Nightshade continuava a dirgli che lui era in missione urgente per salvare Rhys. Il problema era che il cuore non ci credeva, per cui non solo il cuore era giù dalle parti delle scarpe, a imbarazzargli i piedi, ma il cuore era anche impegnato a discutere con la testa, per non parlare della carne di maiale salata.
Nightshade ignorò il cuore e obbedì alla testa. La testa significava Logica, e gli esseri umani erano impressionati dalla Logica e sottolineavano sempre quanto fosse importante comportarsi in maniera logica. La Logica affermava che Nightshade avrebbe avuto maggiori possibilità di salvare Rhys se gli avesse portato aiuto sotto forma di monaci di Majere anziché se lui (un semplice kender) fosse rimasto con Rhys nella grotta. Era stata la Logica dell’argomentazione di Rhys a persuadere Nightshade ad andarsene, e questa stessa Logica lo faceva avanzare anche se il cuore lo sollecitava a voltarsi e tornare indietro di corsa.
Atta gli restava alle calcagna, come le era stato ordinato. Anche lei doveva essere infastidita dal cuore, poiché continuava a fermarsi, attirandosi severi rimproveri da parte del kender.
«Atta! Qui, ragazza! Devi starmi dietro!» la ammoniva Nightshade. «Non abbiamo tempo per bighellonare.»
Atta gli trotterellava dietro perché le era stato detto di fare così, ma non era contenta, e non lo era nemmeno Nightshade.
Il camminare stesso era un altro problema. Solinari e Limitari erano entrambe nel cielo quella notte. Solinari era mezza piena e Lunitari completamente piena, per cui sembrava che le lune facessero l’occhiolino a Nightshade come occhi male assortiti. Il kender vedeva in alto il contorno di una cresta montuosa e calcolava (logicamente) che in cima a quella cresta avrebbe trovato una strada, e che quella strada avrebbe condotto a Flotsam. La cresta non sembrava tanto lontana: appena un saltino sopra certe dune di sabbia, seguito da un’arrampicata fra certi macigni.
Le dune di sabbia si rivelarono però difficili da superare. Il saltino fu un fallimento completo. La sabbia era instabile e molliccia e gli scivolava via da sotto gli stivali che erano già viscidi per la carne di maiale. Nightshade invidiava Atta, che scalpicciava sopra la sabbia, e desiderava avere quattro zampe. Nightshade si dibatté nella sabbia per quello che gli parve un tempo infinito, passando più tempo carponi che in piedi. Si sentì accaldato e sfinito, e ogni volta che guardava gli pareva che te cresta si spostasse più lontano.
Tutte le cose giungono al termine, però, perfino le dune di sabbia. Restavano i macigni. Nightshade immaginava che i macigni fossero meglio delle dune e con sollievo prese ad arrampicarsi sulla cresta.
Il sollievo evaporò presto.
Nightshade non sapeva che i macigni fossero anche di dimensioni così enormi, né che fossero tanto aguzzi, né che scalarli fosse così difficile, né che i ratti dimoranti in mezzo ai macigni fossero così grossi e cattivi. Fortunatamente aveva con sé Atta, altrimenti i ratti l’avrebbero portato via, poiché non avevano la minima paura di un kender. Il cane però a loro non piaceva. Atta abbaiava ai ratti. Loro la fissavano torvi con gli occhi rossi, squittivano verso di lei, poi sgattaiolavano via.
Dopo appena un breve soggiorno fra i macigni, Nightshade aveva le mani graffiate e sanguinanti e la caviglia ferita dopo essere scivolato ed essersela incuneata in una fenditura. Dovette fermarsi a un certo punto per vomitare, ma in questo modo almeno risolse il problema della carne di maiale salata.
Poi, proprio quando pareva che questi macigni dovessero proseguire all’infinito, raggiunse la cima della cresta.
Nightshade arrivò sulla strada che l’avrebbe condotto a Flotsam e ai monaci, e guardò in su e in giù per quella strada. Il suo primo pensiero fu che la parola «strada» rivolgesse a questa striscia rocciosa di solchi di carri un complimento che non si meritava. Il suo secondo pensiero fu più cupo. La cosiddetta strada si estendeva all’infinito, per quanto lui potesse vedere, in entrambe le direzioni.
Al termine di entrambe le direzioni non vi era nessuna città.
Flotsam era immensa. Per tutta la vita lui aveva udito storie riguardo a Flotsam. Era una città che non dormiva mai. Era una città di luci delle fiaccole, di luci delle taverne, falò sulle spiagge e fuochi domestici che brillavano alle finestre delle case. Nightshade aveva ipotizzato che quando avesse raggiunto la strada sarebbe stato in grado di vedere le luci di Flotsam.
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