Nightshade afferrò la fascetta di ferro che gli stringeva la caviglia e prese a spingere la fascetta e lo stivale.
«Inclina il piede», disse Rhys con pazienza.
«Chi credi che io sia?» domandò Nightshade. «Uno di quei tipi del circo che si legano le gambe a nodo dietro il collo e camminano sulle mani? Io so che non so farlo, perché una volta ho provato. Mio padre ha dovuto slegarmi...»
«Nightshade», disse Rhys, «non abbiamo quasi più tempo».
La luce del giorno all’esterno svaniva. La grotta si faceva buia.
Nightshade emise un profondo sospiro. Contraendo il viso, spingeva e tirava. Il piede destro scivolò agevolmente fuori dallo stivale. Poi toccò al piede sinistro. Il kender tolse gli stivali dai ceppi e li scrutò malinconico.
«Tutti i cani di sei contee mi correranno dietro», disse scontroso. Si mise gli stivali untuosi e, afferrando un altro pezzo di carne salata, si chinò accanto a Rhys. «Tocca a te.»
«Nightshade, guarda.» Rhys indicò i ceppi che gli stringevano forte le caviglie ossute. Tirò su i ceppi che erano serrati sui polsi, tanto stretti da strofinargli la pelle a carne viva.
Nightshade guardò. Il labbro inferiore gli tremò. «È colpa mia.»
«No, naturalmente, non è colpa tua, Nightshade», disse Rhys, sconvolto. «Che cosa te lo fa pensare?»
«Se io fossi un kender come si deve, tu non saresti bloccato qui a morire!» gridò Nightshade. «Avrei con me degli attrezzi da scassinatore, capisci, e potrei aprire quei lucchetti così.» Fece schioccare le dita, o almeno ci provò. Per via del grasso, lo schiocco non gli venne molto bene. «Mio padre mi aveva regalato i miei attrezzi da scassinatore quando avevo dodici anni, e aveva provato a insegnarmi a usarli. Non ero molto bravo. Una volta mi è caduto l’attrezzo che ha fatto "bum!" e ha svegliato tutta la casa. Un’altra volta l’attrezzo ha attraversato la serratura (ancora non so bene come) ed è finito dall’altra parte della porta, e così quello l’ho perso...»
Nightshade incrociò le braccia sul petto. «Io non me ne vado! Non puoi costringermi!»
«Nightshade», disse fermamente Rhys, «devi.»
«No, non devo.»
«È l’unico modo per salvarmi», disse Rhys con tono solenne.
Nightshade alzò lo sguardo.
«Stavo pensando», proseguì Rhys. «Noi siamo sul Mare di Sangue. Dobbiamo trovarci da qualche parte vicino a Flotsam. A Flotsam c’è un tempio di Majere...»
«C’è? È meraviglioso!», gridò Nightshade, emozionato. «Io posso correre a Flotsam e trovare il tempio, radunare i monaci, portarli qui, e loro prenderanno tutti a calci nel sedere e noi ti salveremo!»
«È un piano d’azione eccellente», disse Rhys.
Nightshade si dimenò per mettersi in piedi. «Parto subito!»
«Devi portare con te Atta», disse Rhys. «Per protezione. Flotsam è una città senza legge, almeno così ho sentito dire.»
«Giusto! Andiamo, Atta!» Nightshade fischiò.
Atta si alzò in piedi ma non lo seguì. Guardò Rhys. Percepiva che qualcosa non andava bene.
«Atta, sorveglialo», disse Rhys puntando il dito contro il kender.
Spesso le aveva fatto «sorvegliare» qualcosa, e questo voleva dire che Atta doveva tenere d’occhio un oggetto, non lasciare avvicinarsi nessuno. La lasciava a sorvegliare le pecore ammalate mentre lui andava a cercare aiuto. Spesso le diceva di sorvegliare Nightshade.
In questo caso, però, Rhys non se ne andava. Rimaneva lì, e l’oggetto che Atta doveva sorvegliare se ne andava. Rhys non sapeva se la cagna avrebbe capito e obbedito. Era abituata a tenere d’occhio il kender, però, e Rhys sperava che sarebbe andata con lui adesso come aveva fatto in passato. Aveva pensato di provare a fabbricare un guinzaglio per lei, ma Atta non aveva mai saputo che cosa volesse dire essere legata. Rhys immaginava che la cagna si sarebbe ribellata al guinzaglio e lui non aveva tempo per questo. La notte stava calando rapidamente.
«Atta, qui.»
La cagna andò da lui. Rhys le mise le mani sulla testa e la guardò negli occhi marroni.
«Vai con Nightshade», disse. «Tienilo d’occhio. Sorveglialo.»
Rhys la avvicinò e la baciò delicatamente sulla fronte. Quindi la lasciò andare.
«Chiamala di nuovo.»
«Atta, vieni», disse Nightshade.
Atta guardò Rhys. Lui fece un gesto verso il kender.
«Vattene via adesso», ordinò Rhys a Nightshade. «Svelto.»
Nightshade obbedì, incamminandosi verso l’ingresso della grotta. Atta diede un’ultima occhiata a Rhys, quindi obbediente seguì il kender. Rhys emise un lieve sospiro.
Nightshade si fermò. «Torniamo presto, Rhys. Non... non andare da nessuna parte.»
«Stai tranquillo, amico mio», rispose Rhys. «Tu e Atta prendetevi cura l’uno dell’altra.»
«Certamente.» Nightshade esitò, quindi si girò e schizzò fuori della grotta. Atta corse dietro al kender, così come aveva fatto molte volte in precedenza.
Rhys si accasciò contro la parete di roccia. Gli vennero le lacrime agli occhi, ma lui sorrise tra le lacrime.
«Perdonatemi la bugia, Maestro», disse sottovoce.
In tutta la lunga storia dei monaci di Majere, non avevano mai costruito un tempio a Flotsam.
Chemosh era sempre nella Sala delle Anime di Passaggio e ci andava molto poco: una contraddizione che si può spiegare col fatto che uno degli aspetti del Signore della Morte era sempre presente nella Sala, seduto sul trono scuro, a passare in rassegna tutte quelle anime che avevano abbandonato la carne mortale e stavano per affrontare la fase successiva del viaggio eterno.
Chemosh ritornava raramente a questo suo aspetto. Questo luogo era troppo isolato, troppo lontano dal mondo degli dèi e degli uomini. Agli altri dèi era proibito venire nella Sala, affinché non esercitassero un’indebita influenza sulle anime sottoposte a giudizio.
Al Signore della Morte era concessa l’ultima possibilità di influenzare le anime per indurle a passare alla sua causa malvagia, di impedire loro di proseguire il viaggio, di catturarle e tenerle con sé. Le anime che avevano appreso le lezioni della vita riuscivano facilmente a evitare le sue insidie, così come ci riuscivano le anime innocenti, per esempio quelle dei bambini.
Uno degli dèi della luce o della neutralità poteva intercedere per conto di un’anima, ma solo impartendo una benedizione a quell’anima prima che entrasse nella Sala. Una di tali anime si trovava adesso davanti al trono di onice e argento: un’anima che era annerita eppure pervasa da una luce azzurra. L’uomo aveva commesso atti ripugnanti, eppure aveva sacrificato la propria vita per salvare dei bambini intrappolati in un incendio. Il viaggio della sua anima non sarebbe stato facile, poiché lui aveva ancora molto da imparare, ma Mishakal l’aveva benedetto, e lui riuscì a sfuggire alla mano ossuta del Signore della Morte che cercava di ghermirlo. Quando Chemosh intrappolava un’anima, la prendeva e la scaraventava nell’Abisso oppure la rispediva indietro ad abitare il corpo morto che adesso sarebbe diventato la sua terribile prigione.
Anche gli dèi delle tenebre potevano rivendicare anime. Le anime già promesse a Morgion o maledette da Zeboim entravano nella Sala avvolte in catene per essere consegnate dal Signore della Morte a quegli dèi che loro avevano giurato di servire.
Chemosh nel suo aspetto di «mortale» veniva nella Sala soltanto durante quei periodi in cui era profondamente turbato. Si divertiva a farsi rammentare il proprio potere. Qualunque dio avesse adorato in vita un mortale, quando quella vita si concludeva l’anima si presentava davanti a lui. Anche coloro che negavano l’esistenza degli dèi si ritrovavano qui: un brutto colpo per molti. Venivano giudicati in base a come avevano vissuto la propria vita, non al fatto che avessero o no professato una fede in un dio durante tale vita. Una strega che avesse aiutato gli altri per tutta la vita veniva fatta proseguire, mentre l’anima cupida e bramosa che aveva regolarmente imbrogliato i clienti senza però mai perdersi una cerimonia di preghiera cadeva vittima delle lusinghe del Signore della Morte e finiva nell’Abisso.
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