Stallieri e servitori presero subito in consegna cavalli e bagaglio, poi, sperando di apparire dignitoso, Cazaril rifiutò il braccio offertogli dal siniscalco, almeno sinché non fossero arrivati alle scale; quando però si diresse verso il corpo principale del castello, il siniscalco lo richiamò.
«Per ordine della Royina, il vostro alloggio è stato trasferito nella Torre di Ias», spiegò. «In tal modo, sarete più vicino a lei e al Royse.»
Compiaciuto di quella sistemazione, Cazaril seguì il siniscalco fino al terzo piano della torre, dove si erano insediati il Royse Bergon e il suo seguito di nobili ibrani. Bergon aveva scelto per sé una camera da letto diversa da quella in cui era recentemente morto Orico, ma era evidente che non aveva l’abitudine di dormirci. Quanto a Iselle, si era sistemata nell’appartamento della Royina, al piano superiore. La stanza di Cazaril era adiacente a quella di Bergon, e qualcuno vi aveva già trasferito il suo baule e le poche cose che lui possedeva, insieme con un intero, nuovo cambio di vestiario per il banchetto di quella sera. Dopo aver atteso che i servitori gli portassero l’acqua per lavarsi, Cazaril li congedò e si sdraiò sul letto, intenzionato a riposare, come gli era stato suggerito da Palli.
Dopo soltanto dieci minuti, tuttavia, Cazaril si alzò, dirigendosi al piano superiore per vedere com’era organizzato il suo nuovo studio. Riconoscendolo, una serva gli permise di entrare, salutandolo con una riverenza, e lui andò subito a curiosare nella camera che Sara aveva riservato al suo segretario. Come si era aspettato, essa era occupata dai registri e dai libri contabili originali della Royina, cui ne erano stati aggiunti molti altri. Ma, seduto all’ampia scrivania c’era un uomo dai capelli scuri, sui trent’anni, abbigliato con una veste grigia che aveva su una spalla la treccia color carminio propria di un Divino del Padre. L’uomo era intento a segnare cifre su uno dei libri contabili che erano responsabilità di Cazaril; un mucchio di corrispondenza aperta era allargato a ventaglio vicino alla sua mano sinistra e, sulla destra, c’era una pila ancora più grossa di lettere ultimate e da firmare.
«Posso esservi utile, signore?» domandò l’uomo, in tono cortese ma freddo, sollevando infine lo sguardo su Cazaril.
«Io… chiedo scusa, ma non credo che ci conosciamo. Chi siete?»
«Sono l’Erudito Bonneret, il segretario personale della Royina Iselle.»
Cazaril aprì la bocca e la richiuse senza aver emesso suono, anche se avrebbe voluto gridare: Ma sono io il segretario personale della Royina Iselle! «Si tratta di una nomina temporanea, vero?» chiese, infine.
«Confido che sia permanente», ribatté Bonneret, inarcando di scatto le sopracciglia.
«Come siete stato scelto per questo incarico?»
«L’Arcidivino Mendenal è stato tanto generoso da raccomandarmi presso la Royina.»
«Di recente?»
«Come?»
«Siete stato nominato di recente?»
«Da due settimane, signore», precisò Bonneret, poi si accigliò, con aria lievemente irritata, e aggiunse: «Signore, posso sapere chi siete?»
«La Royina… non mi ha detto…» balbettò Cazaril, chiedendosi se davvero era stato allontanato da quella posizione di fiducia. Era chiaro che la valanga di lavoro seguita all’ascesa al trono di Iselle non poteva essere tenuta in sospeso in attesa della sua lenta guarigione e che dunque qualcuno doveva occuparsene. E poi, a giudicare dalle lettere pronte per essere inviate, Bonneret aveva una calligrafia davvero splendida… «Mi chiamo Cazaril», rispose, infine, accorgendosi che il Divino lo stava fissando con. aria sempre più accigliata.
Il cipiglio di Bonneret venne immediatamente sostituto da un sorriso così radioso da essere quasi più allarmante. Lui lasciò cadere la penna, schizzando inchiostro ovunque, e scattò in piedi. «Mio signore dy Cazaril! Sono onorato di conoscervi!» esclamò, con un profondo inchino, e ripeté, in tono molto più ossequioso: «Come posso esservi utile, mio signore?»
Quell’impazienza di compiacerlo sgomentò Cazaril anche più dell’arroganza dimostrata in precedenza da Bonneret. Borbottando qualche scusa incoerente per giustificare la propria intrusione, e sostenendo di essere stanco per il viaggio, lui si affrettò a cercare rifugio al piano di sotto.
Una volta nella propria camera, tentò di occupare il tempo facendo un inventario degli abiti e dei libri che possedeva, disponendo ogni cosa con ordine e constatando con stupore che non sembrava mancare nulla. Quando ebbe finito, si avvicinò alla finestrella, che dava sulla città, l’aprì e si affacciò. Ma nessun corvo sacro venne a fargli visita, cosa che lo indusse a chiedersi se quegli uccelli si annidassero ancora nella Torre di Fonsa, ora che la maledizione era infranta e che il serraglio non c’era più. Indugiò poi a contemplare le cupole del Tempio, e decise di andare a cercare Umegat alla prima opportunità. Infine si sedette e, non avendo altro da fare, si abbandonò allo sconcerto.
Sapeva bene che disponeva di poche energie e, se si sentiva scosso, ciò dipendeva almeno in parte dalla stanchezza. La ferita al ventre, in via di guarigione, gli doleva per la cavalcata, benché assai meno di quando Dondo lo artigliava dall’interno. Sì, era finalmente, gloriosamente libero da inquilini interiori, e quel pensiero aveva suscitato in lui una felicità estatica durata parecchi giorni. Eppure quel pomeriggio non era sufficiente a rasserenarlo. Il periodo di riposo che, a detta di tutti, lui doveva concedersi, stava facendo crescere in lui la sensazione di essere stato abbandonato. Incupendosi, gli venne in mente che, forse, a Chalion-Ibra, non c’era più posto per lui e che per la gestione dei suoi affari, ora infinitamente più vasti e complessi, Iselle avrebbe avuto bisogno di uomini più eruditi e raffinati di un malconcio e strambo ex soldato con aspirazioni da poeta. La cosa peggiore, però, era un’altra: essere rimosso dal servizio presso Iselle significava essere messo al bando dalla presenza quotidiana di Betriz. Ormai nessuno, al tramonto, gli avrebbe acceso le candele; nessuno gli avrebbe procurato un cappello di pelliccia; nessuno avrebbe chiamato un medico se lui fosse stato male; nessuno avrebbe pregato per lui quando si fosse allontanato da casa…
Dal cortile giunse un rumore di zoccoli e di voci. Cazaril pensò che Iselle e Bergon fossero tornati col loro seguito dalle cerimonie del Tempio, ma non poté verificarlo perché, dalla sua finestra, era impossibile vedere il cortile. Pur sapendo che si sarebbe dovuto precipitare a salutarli, decise che non si sarebbe mosso, perché stava riposando… una scusa che suonò ottusa e scortese perfino alle sue stesse orecchie. D’altro canto, una spaventosa spossatezza lo tenne suo malgrado incollato alla sedia.
Prima che riuscisse ad avere la meglio su quell’ondata di malinconia, Bergon fece irruzione nella sua camera. Il Royse era ancora abbigliato con le vesti marrone, arancione e gialle proprie del Santo Generale dell’Ordine del Figlio, complete di una larga cintura per la spada decorata con tutti i simboli dell’autunno. Quella tenuta faceva su di lui un effetto assai migliore di quello che aveva fatto sul vecchio e grigio dy Jironal: se Bergon non costituiva una gioia per gli occhi del Dio, allora voleva dire che compiacerlo era davvero impossibile. Quando Cazaril si alzò per salutarlo, Bergon lo abbracciò e gli chiese come fosse andato il viaggio da Taryoon e come procedesse la sua convalescenza, poi, senza attendere risposta, si lanciò a dirgli contemporaneamente otto cose diverse, finendo per ridere di se stesso. «Fra breve ci sarà tempo per tutte queste cose», esclamò infine. «Sono stato incaricato di una missione dalla mia regale consorte, la Royina di Chalion. Prima però, Lord Caz, dimmi una cosa, in privato… Ami Lady Betriz?»
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