Lois Bujold - L’ombra della maledizione

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 Da una grande maestra della narrativa fantastica, più volte vincitrice del premio Hugo, un potente racconto di mistero, magia e tradimento. Il destino di un cavaliere, della sua stirpe e di un regno tormentato. Provato nel corpo e nello spirito da una lunghissima prigionia, il comandante Lupe dy Cazaril ritorna nel regno di Chalion, in cui aveva servito come paggio, e viene nominato tutore di Royesse, bella e intelligente sorella dell’erede al trono. Ma quell’occasione di riscatto si trasforma presto in un incubo, poiché Cazaril scopre che a corte proprio quegli uomini che lo hanno tradito ora occupano posti di grande potere. E scopre soprattutto che l’intera stirpe di Chalion è gravata da una terribile maledizione, che non può essere annullata se non con la magia più nera…

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Lois McMaster Bujold

L’ombra della maledizione

1

Cazaril sentì i cavalieri avvicinarsi e si voltò per dare un’occhiata. Il sentiero dietro di lui descriveva una serie di curve intorno a uno di quei rilievi arrotondati che, in quelle pianure ventose, passavano per colline, per poi tornare a scendere verso il pianeggiante suolo della Baocia, molle e fangoso a causa del clima invernale. Più a valle, la strada era attraversata da un ruscello verdognolo, troppo insignificante per meritare un ponticello tutto suo.

Cazaril constatò che il tonfo degli zoccoli, unito al tintinnare dei finimenti, allo scricchiolare delle selle e all’eco di voci noncuranti di eventuali pericoli, si stava avvicinando troppo in fretta perché potesse appartenere a qualche cauto contadino alla guida dei suoi buoi o a un convoglio di muli.

Alla fine, la colonna oltrepassò al trotto la svolta che seguiva il fianco dell’altura, e risultò composta di una dozzina di cavalieri che procedevano a coppie, sfoggiando la divisa completa del loro Ordine. Visto che non si trattava di banditi, Cazaril trasse un sospiro di sollievo, sebbene, a ben vedere, non avrebbe avuto nulla da offrire a un gruppetto di malviventi, se non un po’ di divertimento a sue spese. Lentamente si fece da parte e si fermò per assistere al passaggio della colonna.

Le argentate cotte di maglia dei cavalieri scintillavano nell’incerta luce del mattino. Erano armature da parata, coi tabarri azzurri, di una tonalità quasi uniforme, che recavano in bianco l’insegna della Signora della Primavera, mentre i mantelli grigi erano gettati all’indietro e fissati con spille d’argento perfettamente lucidate. Quei soldati-fratelli erano certamente diretti a qualche cerimonia, ed era improbabile che desiderassero sporcare la loro livrea col sangue di un umile viandante come Cazaril.

Inaspettatamente, però, giunto alla sua altezza, il capitano del contingente sollevò una mano, costringendo la colonna ad arrestarsi. La manovra fu compiuta con una certa goffaggine, e venne accompagnata da una serie di risucchi degli zoccoli nel fango, una cosa che avrebbe indotto il vecchio capostalliere del padre di Cazaril a imprecare sonoramente contro quella banda di ragazzi inesperti. Tuttavia ormai cose del genere non avevano più importanza.

«Ehi, tu, vecchio villico», chiamò il capitano, protendendosi oltre la sella del portabandiera per attirare l’attenzione di Cazaril.

Pur sapendo di essere l’unico sulla strada, Cazaril si trattenne a stento dal girare la testa per vedere a chi si stesse rivolgendo. Poi però si rese conto che i soldati dovevano averlo scambiato per qualche contadino locale, diretto al mercato o impegnato ad assolvere qualche incarico, e dovette ammettere che, in effetti, il suo aspetto era tale da avvallare una supposizione del genere. I logori stivali coperti di fango, l’assortimento di abiti spaiati, frutto di elemosina, che lo proteggevano dal gelido vento di sud-ovest — e per i quali lui era profondamente grato a tutti gli Dei — e la barba di due settimane che gli faceva prudere il mento potevano giustificare l’appellativo «villico». Anzi il capitano avrebbe potuto usare termini anche più rozzi… ma perché «vecchio»?

Il capitano del drappello indicò un punto più avanti, lungo la strada, dove un altro sentiero incrociava quello su cui si trovavano. «È quella la strada per Valenda?» chiese.

Erano trascorsi… Cazaril fu costretto a concentrarsi per contare gli anni, e il risultato lo lasciò sgomento. Diciassette anni se n’erano andati dal giorno in cui aveva percorso per l’ultima volta quella strada, diretto non verso una cerimonia, bensì verso la guerra, al seguito del Provincar della Baocia. Benché seccato che la sua cavalcatura fosse un semplice castrato e non un più appariscente destriero da guerra, a quel tempo lui era giovane, arrogante, vanesio e accurato nel vestire quanto quei giovani che lo stavano squadrando dall’alto in basso. Oggi sarei già contento di avere un asino, anche se dovrei piegare le gambe per non far strisciare i piedi nel fango , pensò.

Si concesse un sorriso nel sollevare lo sguardo sui soldati-fratelli, ben sapendo che troppo spesso quelle facciate tirate a lucido erano solo un modo per nascondere borse vergognosamente vuote.

I soldati continuarono a squadrarlo con alterigia, quasi potessero avvertire il suo odore. Del resto lui non era qualcuno su cui desiderassero fare buona impressione: non era un nobile che poteva rivelarsi generoso nei loro confronti, ma un soggetto su cui esercitarsi ad assumere un’aria sdegnosa e aristocratica. Senza dubbio, quei ragazzi stavano scambiando l’espressione con cui lui li osservava per ammirazione, o forse addirittura per stupidità.

Cazaril represse la tentazione d’indicare alla colonna la direzione sbagliata, indirizzandola verso qualche pascolo per le pecore, od ovunque andasse a finire quel bivio dall’aspetto ingannevolmente ampio: non era il caso di giocare uno scherzo del genere ad alcune guardie al servizio della Figlia. Proprio alla vigilia del Giorno della Figlia, poi. Inoltre, gli uomini che entravano a far parte dei sacri ordini militari non erano particolarmente famosi per il loro senso dell’umorismo, e lui avrebbe potato incontrarli ancora, siccome era diretto a Valenda.

«No, capitano», rispose quindi, dopo essersi schiarito la gola, perché era dal giorno prima che non rivolgeva parola ad anima viva. «La strada per Valenda è indicata da una pietra miliare del Roya che si trova qualche miglio più avanti. Non vi potete sbagliare», aggiunse, tirando fuori una mano dalle calde pieghe del cappotto per indicare. Le dita contorte però non si raddrizzarono del tutto e lui si trovò ad accennare alla strada con una mano che sembrava un artiglio. L’aria gelida gli aggredì le articolazioni gonfie, inducendolo a ritrarre in fretta l’arto nel suo nido di stoffa calda.

Il capitano rivolse allora un cenno al suo portabandiera, un individuo dalle spalle massicce, che insinuò l’asta della bandiera nell’incavo del gomito per armeggiare con la propria borsa, frugando per trovarvi una moneta di valore adeguatamente basso. Ne scelse un paio, e le stava tirando fuori per esaminarle alla luce, quando il suo cavallo ebbe un lieve scarto e una delle monete — un reale d’oro e non un vaida di rame — gli sfuggì e cadde nel fango. Sgomento, il soldato seguì con lo sguardo la traiettoria della preziosa moneta, ma subito dopo cercò di controllare la propria espressione e si trattenne dallo smontare davanti ai compagni per frugare nel fango alla ricerca del reale d’oro. Il contadino che credeva di avere davanti si sarebbe comportato così, non lui. A testa alta, l’uomo sfoggiò un sorriso acido e lo fissò, in attesa di vederlo lanciarsi alla frenetica ricerca di quella manna inattesa.

Invece Cazaril s’inchinò e disse: «La benedizione della Signora della Primavera scenda sul vostro capo, giovane signore, con lo stesso spirito con cui voi avete elargito tanta ricchezza a un povero vagabondo e con lo stesso generoso altruismo».

Se fosse stato più intelligente, forse il giovane soldato-fratello si sarebbe reso conto dell’ironia di quelle parole, e Cazaril, nei suoi presunti panni di contadino, si sarebbe guadagnato una meritata frustata in pieno volto. Ma l’espressione vacua del fratello rivelò che non c’era motivo di preoccuparsi, anche se il capitano contrasse le labbra in un’espressione esasperata, limitandosi comunque a scuotere il capo e a segnalare alla colonna di riprendere la marcia.

Se il portabandiera era stato troppo orgoglioso per inginocchiarsi nel fango, Cazaril era troppo stanco per farlo, quindi attese che anche il convoglio dei bagagli — un assortimento di servitori e di muli — fosse passato oltre, prima di accoccolarsi faticosamente per recuperare quella piccola scintilla dorata in mezzo all’acqua fredda, che cominciava già a filtrare nell’impronta lasciata da un cavallo. Per quanto si fosse mosso con cautela, le vecchie ferite sulla schiena gli causarono un intenso dolore. Per gli Dei, mi muovo come un vecchio , si disse, mentre cercava di riprendere fiato e si rimetteva in piedi, sentendosi come un centenario o come una zolla di fango sotto il tacco dello stivale del Padre dell’Inverno, pronto a lasciare il mondo.

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