A queste parole l’altra madre sorrise, trionfante, e Coraline si domandò se avesse fatto la scelta giusta. In ogni caso, ormai era troppo tardi per cambiare idea.
— Affare fatto — disse l’altra madre. — Adesso fa’ colazione, dolcezza mia. Tranquilla, non ti farà male.
Coraline guardò la colazione, odiandosi per aver ceduto tanto facilmente, però stava morendo di fame.
— E chi mi dice che poi manterrai la parola? — domandò Coraline.
— Te lo giuro — le disse l’altra madre. — Te lo giuro sulla tomba di mia madre.
— Ha una tomba? — domandò Coraline,
— Oh, sì — le rispose l’altra madre. — Ce l’ho seppellita io stessa. E quando ho scoperto che stava cercando di sgattaiolare fuori, ce l’ho rimessa.
— Giura su qualcos’altro. Così potrò essere sicura che manterrai la parola.
— Sulla mia mano destra — disse l’altra madre, alzando la mano. Agitò lentamente le lunghe dita, rivelandone delle unghie adunche come artigli. — Giuro su questa.
Coraline fece spallucce. — D’accordo — disse. — Affare fatto. — Mangiò la colazione, e non dovette sforzarsi per farla sparire in fretta. Aveva più fame di quanto avesse immaginato.
Mentre mangiava, l’altra madre continuava a guardarla. Era difficile leggere in quei neri occhi-bottone, ma secondo Coraline, anche l’altra madre doveva aver fame.
Bevve il succo d’arancia e, anche se sapeva che le sarebbe piaciuta, non ebbe il coraggio di assaggiare la cioccolata calda.
— Da dove comincio a cercare? — domandò Coraline.
— Da dove vuoi — rispose l’altra madre, come se non gliene importasse niente.
Coraline la guardò, Coraline si concentrò. Era inutile, decise, esplorare il giardino e i campi: non esistevano, non erano reali. Non c’era nessun campo da tennis abbandonato, nel mondo dell’altra madre, nessun pozzo senza fondo. L’unica cosa reale era la casa.
Diede un’occhiata circolare alla cucina. Aprì il forno, sbirciò nel freezer, infilò le mani nello scomparto dell’insalata nel frigorifero. L’altra madre la seguiva passo passo, guardandola con un ghigno costante sulle labbra.
— E comunque, quanto sono grandi le anime? — domandò Coraline.
L’altra madre si sedette al tavolo della cucina e con la schiena si appoggiò al muro, senza dire una sola parola. Si stuzzicò i denti con una lunga unghia smaltata di cremisi, poi cominciò a tamburellare delicatamente, tap-tap-tap , sulla superficie lucida e nera dei suoi neri occhi-bottone.
— Bene — disse Coraline. — Non dirmelo. Non me ne importa niente. Non importa se mi aiuti oppure no. Lo sanno tutti che un’anima è della stessa grandezza di una palla da spiaggia.
Sperava che l’altra madre dicesse qualcosa del tipo: "Sciocchezze, le anime sono grandi quanto una cipolla matura — o una valigia, o l’orologio del nonno" ma lei si limitò a sorridere, mentre il tap-tap-tap dell’unghia sull’occhio si faceva costante e incessante come la goccia di un rubinetto che perde. Ma poi Coraline si rese conto che era semplicemente il rumore dell’acqua; in quella stanza non c’era che lei.
Rabbrividì. Preferiva che l’altra madre fosse in un posto preciso: se non era da nessuna parte, allora poteva essere dovunque. Ed era sempre più facile avere paura di qualcosa che non si poteva vedere. Si mise la mano in tasca e strinse le dita intorno alla sagoma rassicurante del sassolino con il buco in mezzo. Lo tirò fuori, se lo mise davanti agli occhi come se stesse impugnando una pistola, e uscì nel corridoio.
Non si sentiva altro rumore che il tap-tap dell’acqua che gocciolava nel lavandino di metallo.
Lanciò un’occhiata allo specchio in fondo al corridoio. Per un istante si appannò, e Coraline ebbe la sensazione che sul vetro fluttuassero delle facce, indistinte e senza forma; poi le facce scomparvero, e nello specchio rimase solo una ragazzina che però era troppo piccola per avere la sua stessa età. Teneva in mano una cosa che emanava una luce delicata, simile a un carbone verde.
Sorpresa, Coraline abbassò lo sguardo su ciò che stringevano le sue dita: non era che un sassolino con un buco, un comunissimo sasso marrone. Poi tornò a guardare nello specchio, dove il sasso brillava come uno smeraldo. Il sasso nello specchio emanava una scia di fuoco verde, che si muoveva verso la stanza di Coraline.
— Mmm — disse lei.
Arrivò in camera sua. Quando entrò, i giocattoli cominciarono a muoversi eccitati, come se fossero contenti di vederla, e il piccolo carro armato usci dalla scatola dei giochi per salutarla, passando con i cingoli sopra a diversi altri balocchi. Finì sul pavimento, rovesciandosi nella caduta e restando sulla moquette come uno scarafaggio sulla schiena, brontolando e stridendo prima che Coraline lo raccogliesse e lo rimettesse dritto. Il carro armato sfrecciò sotto il letto per la vergogna.
Coraline si guardò intorno.
Guardò negli armadi e nei cassetti. Quindi afferrò la scatola dei giocattoli e li rovesciò tutti sulla moquette, dove brontolarono, si stiracchiarono, si dimenarono, liberandosi goffamente l’uno dall’altro. Una biglia grigia rotolò sul pavimento e andò a sbattere contro la parete. Nessuno di quei giocattoli aveva l’aria di essere un’anima, pensò Coraline. Prese in mano un braccialetto portafortuna d’argento, al quale erano appesi minuscoli amuleti a forma di animale che si inseguivano lungo tutta la circonferenza, e lo esamino: la volpe non catturava mai il coniglio, l’orso non raggiungeva mai la volpe.
Coraline aprì la mano e guardò il sassolino con il buco, sperando invano di trovarci un indizio. La gran parte dei giocattoli erano strisciati a nascondersi sotto il letto, e quei pochi rimasti (un soldatino di plastica verde, la biglia, uno yo-yo rosa shocking, e roba simile) erano proprio quel genere di cose che nel mondo reale si trovano appunto sul fondo di una scatola di giocattoli: oggetti dimenticati, abbandonati o non amati.
Stava per uscire dalla stanza e andare a cercare altrove. Ma poi si ricordò di una delle voci del buio, una dolce voce sussurrante, e di ciò che le aveva detto di fare. Sollevò il sasso e lo tenne fermo davanti all’occhio destro. Chiuse l’occhio sinistro e guardò la stanza attraverso il buco.
Visto così il mondo era grigio e incolore, come un disegno fatto a matita. Tutto era grigio… no, non proprio tutto. Qualcosa scintillava sul pavimento, qualcosa che aveva il colore di un tizzone nel caminetto di una nursery, il colore di un tulipano scarlatto-e-arancio che annuiva sotto il sole di maggio. Coraline tese la mano sinistra, temendo che se avesse tolto l’occhio dal sasso tutto sarebbe scomparso, e cercò di prendere l’oggetto che ardeva.
Le sue dita si strinsero intorno a qualcosa di liscio e freddo, e lo raccolsero in tutta fretta. Quindi abbassò il sassolino e guardò giù. Nella palma rosea della sua mano c’era la grigia, opaca biglia di vetro che poco prima si trovava in fondo alla scatola dei giocattoli. Portò il sassolino all’occhio, e attraverso il foro guardò di nuovo la biglia. E di nuovo la biglia tornò ad ardere e tremolare, colorata di rosso fuoco.
Una voce le sussurrò nella mente: — Infatti, signora, adesso mi sovviene che ero un maschio, a pensarci bene. Oh, ma devi fare in fretta. Te ne restano altre due da trovare, e la megera ce l’ha già con te perché sei riuscita a trovarmi.
Se devo farlo , pensò Coraline, non lo farò di certo con i suoi vestiti addosso. Si rimise il suo pigiama, la vestaglia e le pantofole, lasciando il maglione grigio e i jeans neri ben piegati sul letto, e gli stivali arancione sul pavimento accanto alla scatola dei giocattoli.
Mise la biglia nella tasca della vestaglia e uscì in corridoio.
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