L’Octavo non era più incatenato. Una lieve luce di ottarino giocava sulla sua superficie.
Trymon allungò un braccio e lo prese in mano, e nessuno degli altri fece obiezione. Il braccio gli formicolava.
Si girò verso la porta e disse: — Adesso alla Grande Sala, fratelli, se posso farvi strada…
E non vi furono obiezioni.
Arrivò alla porta, con il libro sottobraccio. Lo sentiva caldo e in certo modo pungente.
A ogni passo, Trymon si aspettava un grido, una protesta. Niente. Doveva fare ricorso a tutto il proprio autocontrollo per non scoppiare a ridere. Era più facile di quanto avesse mai immaginato.
Gli altri erano arrivati a metà strada di quel claustrofobico sotterraneo quando lui era già alla porta. E forse avevano notato qualcosa dalla posizione delle sue spalle, ma era troppo tardi perché lui aveva oltrepassato la soglia, afferrato la maniglia, sbattuto la porta, girato la chiave. Con un sorriso.
Ripercorse senza difficoltà il corridoio, ignorando le urla di collera degli altri maghi che avevano appena scoperto come fosse impossibile ricorrere agli incantesimi in un locale costruito appositamente per essere inaccessibile alla magia.
L’Octavo si dimenava , ma Trymon lo teneva stretto. Adesso si era messo a correre, scacciando dalla mente le orribili sensazioni sotto il suo braccio via via che la forma del libro si tramutava in "cose" pelose, scheletriche e aguzze. La mano gli si era informicolata. Quei lievi pigolii che aveva udito crebbero di volume. E dietro, si facevano sentire altri suoni… suoni di scherno, suoni invitanti, suoni emessi dalle voci di orrori inimmaginabili, che per Trymon era fin troppo facile immaginare.
Mentre correva attraverso la Grande Sala e su per le scale, le ombre presero a muoversi, a ricomporsi e a richiudersi intorno a lui. E si accorse che qualcosa lo stava seguendo, qualcosa che avanzava a balzellone terribilmente veloce. Ghiaccio sulle pareti. Porte che cercavano d’intrappolarlo al passaggio. Sotto i piedi, la scala pareva diventata una lingua…
Non per nulla Trymon aveva trascorso lunghe ore a esercitare il muscolo della mente in quella che nell’Università era il curioso equivalente di una palestra. Non fidarsi dei sensi, lo sapeva, perché possono essere ingannati. "La scala è lì, da qualche parte… devi volere che sia lì, ordinale di materializzarsi mentre sali. E, ragazzo mio, guarda di mettercela tutta. Perché non si tratta soltanto d’immaginazione."
La Grande A’Tuin rallentò.
Con le pinne grandi come continenti, la tartaruga celeste lottò contro l’attrazione della stella, e attese.
Non ci sarebbe stato da attendere a lungo…
Scuotivento penetrò cautamente nella Grande Sala. C’erano delle torce accese e sembrava che tutto fosse stato preparato per il compimento di qualche rito magico. Ma i candelieri cerimoniali erano stati rovesciati, i complicati ottogrammi disegnati con il gesso sul pavimento erano confusi come ci avessero danzato sopra e l’aria era piena di un odore sgradevole perfino per gli standard assai tolleranti di Ankh-Morpork. C’era un vago sentore di zolfo, sovrastato però da un odore ancora peggiore. Quello del fondo di una palude.
Udirono in lontananza un crollo e un gran vociare.
— Sembra che abbiano abbattuto i cancelli — commentò Scuotivento.
— Andiamocene di qui — pregò Bethan.
— Le cantine sono da questa parte — disse il mago e si avviò verso un arco.
— Laggiù?
— Sì. Preferisci rimanere qui?
Prese una torcia dal braccio nel muro e cominciò a scendere.
Dopo poche rampe i muri, non più rivestiti di pannelli, erano di nuda pietra. Qua e là delle pesanti porte erano state spalancate.
— Ho sentito qualcosa — annunciò Duefiori.
Scuotivento si mise in ascolto. Un rumore proveniva dalle profondità sottostanti. Non era un rumore che incutesse timore. Sembrava piuttosto prodotto da gente che tempestasse di pugni una porta e gridasse "Ohi!". — Non si tratta di quegli esseri delle Dimensioni Sotterranee di cui ci raccontavi, vero? — domandò Bethan.
— Loro non imprecano a questo modo — rispose il mago. — Andiamo.
Si affrettarono lungo i corridoi gocciolanti, guidati dalle grida d’imprecazione e dai colpi di tosse, in certo modo rassicuranti. Ascoltandoli decisero che qualunque cosa producesse quei suoni non poteva in nessun modo rappresentare un pericolo.
Alla fine si trovarono davanti a una porta incassata in un’alcova. Pareva robusta abbastanza da trattenere il mare. C’era una piccola griglia.
— Ehi! — gridò Scuotivento. Non molto efficace, ma non riuscì a pensare niente di meglio.
Si fece un improvviso silenzio. Poi, dall’altro lato della porta, una voce disse molto lentamente: — Chi c’è lì fuori?
Scuotivento riconobbe quella voce. Più di una volta, anni prima, durante le calde ore pomeridiane di lezione, lo aveva riscosso con un sobbalzo dalle sue fantasticherie per piombarlo nel terrore. Era quella di Lemuel Panter, che un tempo si era personalmente incaricato d’inculcare nella testa del giovane Scuotivento i rudimenti dell’arte. Ne ricordava gli occhi simili a succhielli nella faccia da porcellino e la voce che diceva: "E ora, signor Scuotivento, venga qui e disegni il simbolo sulla lavagna". E la marcia di un milione di chilometri davanti alla classe in attesa, mentre cercava disperatamente di rammentare ciò che la voce era andata ronzando circa cinque minuti prima. Perfino adesso gli si seccava la gola dal terrore e dal senso di colpa. Le Dimensioni Sotterranee di certo non si trovavano lì dentro.
— Prego, signore, sono io, signore. Scuotivento, signore — squittì. Si accorse che Duefiori e Bethan lo fissavano esterrefatti, e tossì. Aggiunse, nella voce più bassa che gli riuscì di tirare fuori: — Sì. Ecco chi è. Scuotivento. Proprio.
Dall’altro lato della porta s’incrociavano i bisbigli.
— Scuotivento?
— Scuoti chi?
— Ricordo un ragazzo che non era…
— L’Incantesimo, ti rammenti?
— Scuotivento?
Una pausa. Quindi la voce disse: — Suppongo che la chiave non sia nella serratura, vero?
— No — rispose Scuotivento.
— Che cosa ha detto?
— Ha detto no.
— Tipico del ragazzo.
— Uhm, chi c’è lì dentro? — chiese Scuotivento.
— I Maestri della Stregoneria — rispose altezzosa la voce. Un’altra pausa, quindi una conferenza di bisbigli imbarazzati.
— Noi, uh, siamo rimasti chiusi dentro — rispose la voce riluttante.
— Cosa, con l’Octavo? Bisbigli e ancora bisbigli.
— L’Octavo, in effetti, non è qui, in effetti — disse adagio la voce.
— Oh, ma voi ci siete? — Scuotivento si sforzò di essere cortese, mentre ridacchiava come un necrofilo in un obitorio.
— Così sembrerebbe.
— Possiamo portarvi qualcosa? — chiese ansiosamente Duefiori.
— Potreste cercare di farci uscire.
— Non potremmo scassinare la porta? — fu il suggerimento di Bethan.
— Inutile. È assolutamente a prova di ladro — affermò Scuotivento.
— Immagino che Cohen sarebbe stato capace di farlo — ribatté lei, lealmente. — Dovunque si trovi.
— Il Bagaglio l’abbatterebbe subito — convenne Duefiori.
— Be’, questo è quanto — concluse la ragazza. — Usciamo all’aria fresca. O comunque più fresca. — E si girò per andarsene.
— Aspetta, aspetta — disse Scuotivento. — Questo è proprio tipico, no? Il vecchio Scuotivento non ha nessuna idea, vero? Oh, no, lui è solo un buono a nulla. Dategli un calcio passando. Non contate su di lui, lui è…
— Va bene — lo interruppe Bethan. — Sentiamo, allora.
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