Qualcosa, o qualcuno, stava facendo forza contro la mia schiena. Era come se uno sconosciuto mi stesse vicino, con la spina dorsale appoggiata alla mia, ed esercitasse una leggera pressione. Sentivo freddo, ed ero grato al calore di quel corpo.
— Severian! — Era la voce di Dorcas, ma pareva provenire da lontano.
— Severian! Nessuno lo aiuta? Lasciatemi andare.
Lo squillo di un carillon. I colori, che avevo creduto essere prodotti dalle foglie, appartenevano invece al cielo, nel quale un arcobaleno si snodava sotto l'aurora australe. Il mondo era un grande uovo pasquale, brulicante di tutte le tinte della tavolozza. Vicino alla mia testa una voce domandò: — È morto? — E qualcun altro rispose seccamente: — Sì. Quelle foglie uccidono sempre. Vuole per caso vederlo trascinare via?
La voce del Septentrion, stranamente famigliare, disse: — Rivendico il diritto del vincitore sulle sue vesti e sulle sue armi. Datemi la spada.
Mi misi a sedere. Le foglie si dibattevano debolmente a pochi passi dai miei stivali. Il Septentrion era un po' più distante e teneva ancora in mano il suo avern. Trassi un respiro per domandare cosa fosse successo e qualcosa mi cadde dal petto sulle ginocchia: una foglia macchiata di sangue.
Quando mi vide, il Septentrion si volse di scatto e sollevò l'avern. L'eforo si interpose fra di noi, allungando le braccia. Dalle ringhiere uno spettatore urlò: — Il suo diritto, soldato! Lascia che si rialzi e prenda la sua arma.
Le gambe mi reggevano a fatica. Mi guardai intorno, intontito, in cerca del mio avern, e finalmente lo trovai solo perché era vicino ai piedi di Dorcas che stava lottando con Agia. Il Septentrion gridò: — Dovrebbe essere morto! — L'eforo disse: — Non lo è, ipparca. Quando avrà ripreso la sua arma, potrete continuare il duello.
Toccai lo stelo del mio avern e per un istante ebbi l'impressione di avere fra le mani la coda di un animale a sangue freddo ma vivissimo. Parve agitarsi nella mia mano e le foglie rumoreggiarono. Agia stava gridando «Sacrilegio!» e io mi attardai a guardarla, quindi ripresi l'avern e mi voltai per affrontare il Septentrion.
Gli occhi erano oscurati dall'elmo, ma ogni linea del suo corpo esprimeva paura. Per un momento mi sembrò che spostasse lo sguardo da me ad Agia, quindi si voltò e fuggì verso l'apertura della ringhiera. Gli spettatori gli bloccarono la strada e lui usò l'avern come una frusta, sferrando colpi in tutte le direzioni. Si udì un urlo, poi un crescendo di grida diverse. Il mio avern mi stava tirando indietro; o meglio, il mio avern non c'era più e qualcuno mi stringeva la mano. Dorcas. Chissà dove, lontano, Agia urlò: — Agilus! — e un'altra donna gridò: — Laurentia della Casa dell'Arpa!
La mattina seguente mi svegliai in un lazzaretto, un alto e lungo stanzone nel quale i malati e i feriti giacevano sui letti. Ero nudo e per molto tempo, mentre il sonno (o la morte) mi appesantiva le palpebre, passai lentamente le mani sul mio corpo, in cerca delle ferite e mi domandai, alla pari del personaggio di una canzone, come avrei potuto vivere senza vestiti e senza soldi e soprattutto come avrei fatto a giustificare al Maestro Palaemon la perdita della spada e del mantello che mi aveva dato.
Ero proprio sicuro di averli persi… o comunque di trovarmi molto distante da entrambi. Una scimmia dal volto di cane sfrecciò lungo la corsia, si attardò un istante accanto al mio letto per guardarmi e poi proseguì. Questo mi parve ancora più strano della luce che cadeva sulla mia coperta da una finestra che non riuscivo a vedere.
Mi svegliai nuovamente. Per un istante pensai di essere ancora nel nostro dormitorio, di essere il capitano degli apprendisti; tutto il resto, la mia nomina ad artigiano, la morte di Thecla, il duello, mi sembrava solo un sogno. Non sarebbe stata l'ultima volta che avrei provato quella sensazione. Poi mi resi conto che il soffitto era intonacato e non metallico, e che l'uomo steso nel letto di fianco al mio era tutto bendato. Gettai via le coperte e appoggiai i piedi sul pavimento. Dorcas dormiva seduta, con le spalle appoggiate alla parete vicino alla testata del letto. Si era avvolta intorno il mio mantello marrone e teneva in grembo Terminus est , e l'impugnatura e il fodero della spada spuntavano ai due lati opposti del mucchio formato dai miei indumenti. Riuscii a prendere la calzamaglia e le brache, gli stivali, la cappa e la cintura con la borsa senza svegliarla, ma quando cercai di prendere la spada, lei mormorò e aumentò la stretta, così gliela lasciai.
Molti malati erano svegli e mi guardavano, ma non dissero niente. In fondo allo stanzone una porta dava su una scala; scesi nel cortile dove scalpitavano i destrieri. Per un attimo pensai che stavo ancora sognando: il cinocefalo si stava arrampicando sul muro. Ma si trattava di un animale vero come i destrieri, e quando gli gettai un sasso, snudò i denti impressionanti come quelli di Triskele.
Un soldato con un usbergo uscì per andare a prendere qualcosa nella borsa della sua sella. Lo fermai e gli domandai che posto fosse quello. Lui credette che volessi sapere in quale parte della fortezza ci trovassimo e indicò una torretta dietro la quale, spiegò, sorgeva il Palazzo di Giustizia. Quindi mi disse che se fossi andato con lui avrei potuto mangiare qualcosa.
All'improvviso mi accorsi di essere affamato. Lo seguii lungo un corridoio buio e in una stanza molto più bassa e scura del lazzaretto, nella quale quaranta o cinquanta dimarchi come lui stavano consumando il loro pasto composto di pane appena sfornato, carne di bue e verdure bollite. Il mio nuovo amico mi suggerì di prendere un piatto e di dire ai cuochi che mi era stato ordinato di andare lì a mangiare. Obbedii e, nonostante i cuochi si mostrassero un po' sorpresi davanti al mio mantello di fuliggine, venni servito senza obiezioni.
Se i cuochi non erano curiosi, i soldati lo erano tantissimo. Vollero sapere come mi chiamassi e da dove venissi e che grado avessi, perché credevano che la nostra corporazione fosse strutturata come l'esercito. Mi chiesero dove fosse la mia scure e quando risposi che usavo la spada mi domandarono dove l'avessi lasciata; dopo avergli risposto che avevo con me una donna e che era lei a custodirla, mi misero in guardia contro una sua possibile fuga con la mia arma. Mi consigliarono di portarle una pagnotta nascondendola sotto il mantello, perché lei non avrebbe avuto il permesso di entrare a mangiare lì. Scoprii che la maggior parte degli uomini più anziani avevano mantenuto qualche donna, prima o poi, generalmente ausiliarie; ma al momento erano pochi quelli che lo stavano facendo. Avevano trascorso l'estate precedente combattendo nel nord ed erano stati inviati a svernare a Nessus, dove svolgevano il loro servizio mantenendo l'ordine. Erano in procinto di tornare al nord, al massimo dopo una settimana. Le loro donne erano rientrate nei rispettivi villaggi per vivere con i genitori e i parenti. Domandai se le donne non avrebbero preferito seguirli verso sud.
— Preferito? — disse il mio nuovo amico. — Certamente. Ma come avrebbero potuto farlo? Una cosa è seguire la cavalleria che si apre la strada combattendo al nord con l'esercito, che non avanza più di una o due leghe al giorno quando va bene, e se conquista tre leghe in una settimana stai certo che quella seguente ne perderà due. Ma come avrebbero potuto starci dietro durante il rientro in città? Quindici leghe al giorno. E che cosa avrebbero mangiato durante il viaggio? Per loro è molto meglio aspettare. Se nel nostro vecchio settore arriverà una nuova xenaglia, si troveranno altri uomini. E con loro giungeranno nuove ragazze, e alcune delle più vecchie si ritireranno; in tal modo tutti hanno la possibilità di cambiare, se vogliono. Ho sentito dire che ieri sera hanno portato qui uno di voi carnefici, più morto che vivo. L'hai visto?
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