Si fermò con un fremito. Vacillando in malcerto equilibrio su due sassi dimenticò la stanchezza e il mal di piedi, mentre tendeva gli orecchi girando lo sguardo qua e là. Si chinò, bevve un po’ d’acqua e guardò ancora dietro di sé. Nella pigra calura del mezzodì non si muoveva una foglia, e tuttavia ella sentiva qualcosa, captava il suo nome nella mente di qualcuno. Bevve ancora, si asciugò la bocca con una manica, e si strappò dal polsino un filo d’argento con cui fece una treccia.
Lasciò dietro di sé parecchi di quei sviluppi di filo, cospicui e intricatissimi. Usò dei lunghi steli d’erba che annodò in modo complicato; sembravano fragili all’occhio, ma ad un uomo o a un cavallo che vi fossero capitati sopra sarebbero apparsi solidi come catene. Depose un certo numero di rovi nei punti di passaggio obbligato, immaginando che l’incantesimo li avrebbe trasformati agli occhi di chi la seguiva in barriere insuperabili. Più avanti scavò al suolo una buchetta larga un palmo, ne circondò il bordo con alcune foglie e poi la riempì d’acqua con le mani. Rifletteva l’azzurro del cielo come un occhio aperto nel terreno, null’altro che una buchetta, ma capace di diventare il miraggio di un lago dinnanzi a chi si fosse fermato sulla sua riva.
L’allarmante sensazione d’essere seguita cominciò a sfumare, e si disse che l’uomo doveva esser finito in qualcuna delle sue trappole. Allora si permise di rallentare il passo. Era ormai tardo pomeriggio, e il sole si abbassava sulle cime piatte dei pini. Il vento fresco della sera cominciò a levarsi fra le piante. Portava con sé l’odore della solitudine e della desolazione dell’entroterra. Gettò uno sguardo alla lunga teoria di giorni e di notti che si prospettavano dinnanzi a lei, al viaggio faticoso attraverso lande disabitate, quasi impossibile per chi osasse affrontarlo senz’armi e a piedi. Ma dietro di sé lasciava il Passo Isig coi suoi segreti oscuri e inesplorabili; e ad An non c’era nessuno, neppure suo padre, da cui avrebbe potuto avere un grammo di conoscenza. Poteva solo sperare che la sua cieca necessità avrebbe finito per inciampare da sola su ciò che poteva soddisfarla. Fu scossa da un brivido, non per il vento, ma al vuoto fruscio del suo passaggio, e riprese il cammino. Il sole tramontò, accarezzando gli alberi con le sue ultime dita di luce purpurea; il crepuscolo scese su un mondo fatto di silenzio irreale. La fanciulla continuò a procedere, senza pensare, senza fermarsi a mangiare, e senza capire che stava oltrepassando il limite sottile della sua resistenza fisica. Si alzò la luna; il suo lento progredire ipnotico al di sopra di cose che non poteva vedere cominciò a rallentare i suoi passi. Ad un tratto cadde, in apparenza senza alcun motivo, e quando cercò di rialzarsi fu sorpresa di scoprire quanto le era difficile. Pochi passi più avanti tornò a cadere, e ne provò lo stesso ottuso stupore. Mentre si tirava in piedi sentì il sangue caldo lungo i ginocchi, e vacillando finì con una mano fra le spine. Restò lì, stringendosi la mano sotto un’ascella, e si chiese perché il suo corpo stesse tremando, visto che l’aria della notte non era fredda. Fu allora che vide, come un sogno divenuto realtà, il rosseggiare di un piccolo fuoco che brillava fra gli alberi. Quando si fu avvicinata scoprì che l’uomo seduto nell’alone della fiamma era l’arpista del Supremo.
Per un momento, immobile nella penombra rosata, fu soltanto capace di pensare che non era Morgon. L’uomo sedeva con le spalle appoggiate a un macigno, a capo chino, il volto nascosto dai capelli argentati. Poi sollevò la testa e si accorse della sua presenza.
Lei sentì il suo ansito: — Raederle?…
La ragazza fece un passo indietro, e lui ebbe un movimento brusco come fosse sul punto di alzarsi e fermarla prima che svanisse di nuovo nell’oscurità. Poi l’uomo si controllò, e con deliberata calma si riappoggiò con le spalle alla roccia. Sul suo volto c’era un’espressione che non gli aveva mai visto prima, e che la costrinse a indugiare oltre la portata della luce. Lui ebbe un gesto d’invito verso il fuoco e la lepre infilata in uno spiedo sopra di esso.
— Sembri stanca; riposati un poco. — Girò lo spiedo, e un profumo di carne arrosto aleggiò nell’aria fino a lei. L’uomo aveva i capelli spettinati, il suo volto appariva smagrito, segnato, stranamente comunicativo. La voce, musicale e velata d’ironia, non era cambiata.
Lei mormorò: — Morgon ha detto che tu… tu suonavi l’arpa, mentre lui languiva mezzo morto in potere di Ghisteslwchlohm.
Vide un muscolo contrarsi sul suo volto. L’uomo allungò una mano a cercare un paio di rametti e li gettò sul fuoco. — È vero. Riceverò la ricompensa che mi spetta, per quella musica. Ma badiamo a noi: vuoi qualcosa da mangiare? Io sono condannato, e tu sei affamata. Sono questioni che hanno poco a che fare l’una con l’altra, dunque non c’è motivo che tu non possa mangiare con me.
Fece un altro passo, questa volta verso di lui. Benché si sentisse scrutata l’espressione dell’arpista non cambiava, così la giovane donna osò muovere ancora un passo. Lui tolse un boccale dalla sacca, lo riempì di vino con una borraccia di pelle. Infine lei si decise ad accostarsi e protese le mani verso il fuoco. Sentì una fitta di dolore; se le guardò e le vide più segnate dai rovi e dalle spine di quanto avrebbe creduto, lui disse: — Ho dell’acqua… — Lei si volse e lo vide raccogliere una ciotola, in cui versò dell’acqua da un piccolo otre floscio. Le sue dita ebbero un tremito mentre richiudeva il tappo, e non disse altro. La ragazza sedette e si lavò via la polvere e il sangue dalle mani. Sempre in silenzio lui le passò il boccale, il pane e la carne, e guardandola mangiare si limitò a sorseggiare il suo vino.
Poi disse, con voce così lieve che lei non trasalì neppure: — Mi sarei potuto aspettare che a comparire di notte presso il mio fuoco fosse Morgon, o uno qualsiasi dei cinque maghi, ma ben difficilmente la seconda donna più bella della lontana An.
Lei si contemplò distrattamente le mani e le ginocchia. — Non sono più molto all’altezza di questo titolo. — Un attimo di sofferenza la costrinse a deglutire saliva. Abbassò la ciotola di carne e sussurrò: — Anch’io ho cambiato forma. E anche tu.
— Io sono sempre stato me stesso.
Lei osservò quel volto fine, elusivo, trovandovi l’insolita ombra di un sorrisetto scherzoso. Allora chiese, benché sia le domande che le risposte le apparissero remote, addirittura impersonali: — E il Supremo? Per chi hai suonato la tua arpa in questi lunghi secoli?
Lui si piegò in avanti così bruscamente da far oscillare il fuoco. — Sai quali domande formulare, dunque conosci le risposte. Il passato è passato. Io non ho alcun futuro.
Lei si schiarì la gola. — Perché? Perché hai tradito il Portatore di Stelle?
— È una gara di enigmi, questa? Ti darò risposta per risposta.
— No. Non c’è nessuna gara.
Fra loro cadde ancora il silenzio. La giovane bevve, e mentre il vino e il calore del fuoco riportavano la vita nelle sue membra avvertì il dolore dei graffi e delle contusioni. Quando il suo boccale fu vuoto lui glielo riempì di nuovo. Per qualche motivo, forse perché entrambi sedevano avvolti in un alone di tristezza, si sentì più a suo agio e infine mormorò: — Lui ha già ucciso un arpista.
— Cosa?
— Morgon. — Strinse le spalle, come per scacciare il brivido che al ricordo di quella oscura nostalgia l’aveva pervasa. — Il padre di Ylon. Morgon ha ucciso il padre di Ylon.
— Ylon — ripeté lui in tono strano, costringendola a fissarlo sorpresa. Poi ebbe una risata, stringendo forte il boccale fra le dita. — Così è stato questo a spingerti fuori nella notte. E tu credi che, in mezzo a questo caos, la cosa abbia qualche importanza?
Читать дальше