Patricia McKillip - L'erede del mare e del fuoco

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L'erede del mare e del fuoco: краткое содержание, описание и аннотация

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La terra di Hed, è risaputo, non è mai stata una fucina di eroi. Tutti i suoi abitanti — compresi i principi che la reggono — sono contadini, ed anche Morgon, Signore di Hed, è un contadino. Ma non solo questo. Perché in un mondo da cui la magia è misteriosamente scomparsa in un remoto passato, e nel quale il sapere esoterico è affidato ai Signori degli indovinelli, Morgon può essere considerato un adepto, il miglior allievo della scuola di Caithnard, unico risolutore di un indovinello rimasto inspiegabile per oltre settecento anni. E poi Morgon ha tre stelle in fronte, identiche a quelle incise su un’arpa che solo lui può suonare e sull’elsa di una spada che solo lui può impugnare. Così, senza volerlo, il principe di Hed viene coinvolto in un viaggio fantastico e in un’avventura misteriosa, nel viaggio verso la montagna di Erlenstar assieme all’arpista del Supremo, per cercare risposta a una domanda che neppure lui ancora conosce. Con l’aiuto di Raederle, la donna che ama e per la quale ha vinto una sfida, Morgon affronterà un difficile cammino esistenziale e avventuroso, cercando la soluzione dell’enigma che lega passato e futuro, e combattendo Ohm, il mago corrotto che vuole alterare gli equilibri del mondo.

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Raederle mosse lentamente una mano. Per un momento quella balenante creatura di luce che la attirava, che aveva conosciuto per tutta la vita senza conoscerla, le parve uno degli enigmi che si ponevano ai bambini. Incuriosita fece per sfiorarla. Poi comprese che se avesse toccato quel fuoco sarebbe stato come rinnegare il suo nome, il suo stesso diritto ereditario a far parte della dinastia di An, per sostituirli con un’eredità che non conosceva la pace, con un nome che nessuno sapeva. Le sue dita, già tese alla fiamma, si chiusero bruscamente. Allora sentì il calore, la barriera bruciante del fuoco, e ritrasse subito la mano. Dalla bocca le scaturì un ansito:

— No!

— Tu potresti, se volessi. Ti basterebbe abbandonare la paura che provi per l’origine dei tuoi poteri.

— E poi che accadrebbe? — Con uno sforzo distolse lo sguardo dalla sua mano. — Perché mi dici questo? Tu cosa ci guadagni?

Qualcosa nell’espressione della donna mutò, come se nell’oscurità della sua mente la porta di un pensiero si fosse chiusa. — Nessuna ragione particolare. Ero curiosa. Di te, e del voto di tuo padre che ti ha legata al Portatore di Stelle. Mathom ha il dono della precognizione?

— Non lo so.

— Io mi attendevo l’arrivo del Portatore di Stelle, ma non il tuo. Se mai lo rivedrai avrai il coraggio di dirgli, o di lasciargli capire, che sei della stessa razza di coloro che cercano di distruggerlo? E se gli darai un figlio, gli rivelerai quale sangue avrà nelle vene?

Raederle deglutì. Aveva la gola secca, e si sentiva la pelle del volto come stirata dalla tensione. Per ritrovare la voce fu costretta a inghiottire ancora saliva. — Lui è un Maestro degli Enigmi. Non ha bisogno che cose simili gli siano dette. — D’improvviso si ritrovò in piedi, attanagliata da un’angoscia insopportabile. Volse le spalle alla donna. — In tal caso, mi avrà vinta con un enigma e mi avrà lasciata a causa di un altro! — ansimò, quasi senza sapere cosa stava dicendo. — Queste sono forse cose che riguardano te?

— Perché altrimenti sarei qui? Tu hai paura di toccare il potere lasciato a te da Ylon; dunque ricorda il suo tormento, il suo desiderio.

Una tristezza disperata salì come una marea nell’animo di Raederle, finché non vide più nulla e non sentì più nulla, salvo la sofferenza e la nostalgia che l’avevano pervasa alla vista di Pian Bocca di Re. Alle narici le giunse l’odore salmastro del mare, delle alghe secche, del ferro arrugginito nel vento marino che anche Ylon doveva aver sentito nella sua prigionia. Udì il vuoto tonfo delle onde contro la base della torre di pietra, il risucchio delle acque che si ritraevano dai denti scabri delle rocce sotto di lui. Udì i lamenti degli uccelli marini che stridevano lasciandosi portare via dal vento. E poi udì provenire da un mondo al di là della tenbra, al di là della speranza, le note di un’arpa stranamente intonate alla sua tristezza, i cui arpeggi di pianto erano anche il suo pianto. Era una musica lieve, quasi sperduta nello scrosciare della pioggia sul mare e nel respiro incessante delle onde. Sentì la sua anima smarrirsi in quell’arpa, ebbe l’impressione di muoversi verso di essa, stordita, finché s’accorse che le sue mani s’erano appoggiate ai vetri freddi, come le mani di Ylon dovevano essersi appoggiate alle sbarre della sua finestra. Con un ansito scacciò da sé la voce dell’arpa e la voce del mare, e indietreggiò lentamente. La voce della donna fu come un sussurro che si allontanava sempre più:

— Tutti noi abbiamo quell’arpa nel sangue. Morgon uccise l’arpista, il padre di Ylon. Dunque dove, in un mondo che muta così inaspettatamente, pensi di aggrapparti per cercare la sicurezza che desideri?

Il silenzio che restò nella stanza dopo l’uscita della donna fu profondo come quello che precede la tempesta. Raederle volse le spalle alla finestra e fece un passo verso la porta. Ma Lyra non avrebbe potuto aiutarla affatto, e forse non l’avrebbe neppure capita. L’assenza di rumori fu rotta da un rantolo che sentì uscire dalla sua stessa gola, e si tappò la bocca con le mani. Un volto scivolò nei suoi pensieri: il volto di uno sconosciuto adesso, magro, amaro, tormentato anch’egli. Neppure Morgon avrebbe potuto aiutarla. Ma lui aveva saputo sopportare il contatto della verità e, per quel che riguardava lei, avrebbe potuto affrontarne un’altra. Le sue mani avevano cominciato a muoversi ancora prima che se ne fosse resa conto, togliendo dalla sacca da viaggio le vesti che non le sarebbero servite. Vi rovesciò dentro la frutta, le noci e i pasticcini dei due vassoi che le erano stati lasciati sul tavolo, ripiegò sopra di essi una soffice pelliccia, quindi richiuse la sacca. Si gettò il pesante mantello sulle spalle e uscì in punta di piedi, lasciando dietro di sé come un messaggio il disordine e l’evidenza della sua assenza.

Nell’oscurità di quella vasta dimora sconosciuta non fu capace di trovare le stalle, così uscì dal cortile a piedi, e alla luce della luna scese giù dalla montagna per la strada che portava all’Ose. Dalle mappe che Corbett aveva consultato spesso sapeva che l’Ose curvava a sud per un certo tratto, dopo aver girato intorno alle pendici delle colline dietro l’Isig; avrebbe potuto seguirne il corso fin dove tornava a voltare a oriente. Nel lasciare Osterland Morgon s’era diretto a sud lungo quello stesso percorso, o così poteva arguire, sempreché intendesse recarsi a Herun. O forse, come i maghi, s’era messo sulla strada di Lungold? Ma questo non aveva importanza, rifletté, poiché la via migliore per il sud restava quella. E con la sua mente da mago all’erta contro il pericolo, forse si sarebbe accorto della presenza di lei e avrebbe cercato di raggiungerla per investigare sulla sua identità, in quelle vaste zone deserte dell’entroterra.

Trovò una vecchia carrareccia, irregolare e fangosa, che scendeva lungo il fiume, e seguì quella. Dapprima, mentre quasi fuggiva dalla dimora del Re, l’eccitazione l’aveva fatta sentire invisibile, intoccabile dalla stanchezza, dalla paura e dal freddo. Ma il fruscio eterno dell’Ose non tardò a riportarla coi piedi sulla terra, e guardandosi attorno nel buio fu scossa da brividi. La luna riempiva la stradicciola di ombre oscure; la voce del fiume copriva altre voci, suoni che non era mai veramente certa di udire, scalpiccii che potevano essere qualcosa che la seguiva o che veniva verso di lei. Gli antichi abeti con la loro corteccia rugosa, stranamente simile alla faccia di Danan, le davano un po’ di conforto. Ad un tratto sentì fra i cespugli un fruscio e il ringhio di un animale, e si fermò di botto. Due bestie lottavano nel folto. Poi la fanciulla si disse che della sua sorte non gliene importava molto, e proseguì, ma fu sollevata quando quei rumori allarmanti si dileguarono in distanza. Camminò finché la carrareccia terminò senza preavviso in una parete di rovi, e la luna ormai al tramonto le impedì di trovare un’uscita. Tolse la pelliccia dalla sacca, la distese sull’erba e vi si arrotolò dentro. Era così sfinita che si addormentò subito, ma nei suoi sogni udì il mormorio dell’Ose che faceva da sottofondo al triste canto di un’arpa marina.

Si svegliò all’alba, e i suoi occhi furono subito abbagliati dal tocco del sole. Scese al fiume per lavarsi la faccia alla meglio e bevve, quindi mangiò un poco del cibo che aveva messo nella sacca. Le dolevano le ossa; i suoi muscoli snelli protestarono a ogni movimento finché non ebbe cominciato a camminare di lena. Farsi strada lungo la riva del fiume non sembrava difficile; evitò gli agglomerati di cespugli, scalò i banchi di rocce fra cui a tratti la corrente si spezzava in brevi rapide; si tolse gli stivali e si sollevò la veste nei punti in cui era necessario scendere per un po’ nell’acqua, si ammaccò le ginocchia e si graffiò le mani ogni volta che cadde, e sentì il sole caldo batterle sul volto. Dopo il primo tratto difficoltoso perse la cognizione del tempo, ed era a tal punto intenta a misurare ogni suo movimento sulle rocce che solo più tardi, udendo un rumore alle spalle, si rese conto che qualcuno la seguiva.

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