Abraham Merritt - Gli abitatori del miraggio

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Otto milioni di copie vendute per otto libri pubblicati: un record che nessun altro autore fantastico e fantascientifico ha mai eguagliato. Abraham Merritt, che siamo lieti di presentare sulle pagine di « Futuro » con uno dei suoi più noti capolavori, è una figura dominante nella letteratura immaginativa americana. Capostipite di una «scuola» che ha fra i suoi esponenti Fritz Leiber, Jack Vance ed Ira Levin, è il più grande ed affascinante creatore di mondi fantastici. Mondi dimenticati in luoghi inaccessibili, nascosti tra le pieghe del tempo, perduti tra i labirinti di altre sconosciute dimensioni. « Gli abitatori del miraggio » lo presenta in questa vena, che ha una grande tradizione narrativa. Merritt trasporta i suoi personaggi —ed i lettori con essi — dalla magica desolazione del deserto di Gobi, culla dell’uomo. agli universi misteriosi che si celano al di là dell’illusione e del miraggio. Universi popolati da figure mitiche, da genti e creature favolose, su cui domina l’ombra minacciosa del Kraken, che guida l’eterna battaglia fra il Bene ed il Male, incarnati in due figure di donna egualmente enigmatiche ed inafferrabili. Universi alternativi alla grigia realtà contemporanea, che fanno sognare e pensare.

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La cosa addormentata era completamente desta… era il mio cervello… ero io… e Dwayanu era dimenticato!

Lanciai avanti il mio cavallo.

Il braccio di Rascha si alzò per colpire di nuovo… Il cavaliere dagli occhi castani gli avventò un colpo di spada, e Jim stava cadendo, scivolando sopra la criniera del mio cavallo.

Afferrai il braccio di Rascha prima che il pugnale potesse abbassarsi ancora. Afferrai quel braccio, lo piegai all’indietro, e sentii l’osso spezzarsi. Lui ululò… come un lupo.

Un martello mi passò sibilando vicino alla testa, mancandomi di un capello. Vidi Tibur che lo ritirava con la cinghia.

Mi piegai, e sollevai Rascha dalla sella. Levò di scatto il braccio illeso, con la mano mi abbrancò alla gola. Gli afferrai il polso e gli torsi il braccio all’indietro. Lo spezzai come avevo spezzato l’altro.

Il mio cavallo scartò. Con una mano stretta intorno alla gola di Rascha, reggendolo con l’altro braccio, caddi dalla sella, trascinandolo con me. Gli caddi addosso. Mi girai, lo gettai sul mio ginocchio piegato. La mia mano gli scese dalla gola al petto. La mia gamba destra bloccò le sue.

Una rapida spinta verso l’alto… un suono come lo spezzarsi di una fascina. Lo Spaccaschiene non avrebbe più spezzato la schiena a nessuno. Era la sua ad essersi spezzata.

Balzai in piedi. Guardai il viso del cavaliere dagli occhi castani…

… Evalie! …

Gridai: «Evalie!»

All’improvviso, attorno a me la battaglia si riaccese. Evalie si girò per affrontare la carica. Vidi le grosse spalle di Tibur levarsi dietro di lei… lo vidi strapparla di sella… vidi nella sua mano sinistra un lampo di luce, che sfrecciò verso di me…

Venni scagliato da parte. Appena in tempo… e non abbastanza presto…

Sentii un colpo di striscio, alla testa. Caddi sulle ginocchia e sulle mani, accecato e stordito. Sentii ridere Tibur: mi sforzai di vincere la vertigine cieca e la nausea, mentre il sangue mi colava sul viso.

E lì accovacciato, barcollando sulle mani e sulle ginocchia, udii la marea della battaglia allontanarsi da me.

La mia testa smise di girare. La cecità stava passando. Ero ancora sulle mani e sulle ginocchia. Sotto di me c’era il corpo di un uomo… un uomo i cui occhi neri erano fissi nei miei… con comprensione… con affetto!

Sentii un tocco sulla mia spalla; alzai la testa con difficoltà. Era Dara.

«Un filo tra la vita e la morte, Signore. Bevi.»

Mi accostò alle labbra una boccetta. L’amaro liquido ardente scorse dentro di me, mi ridiede fermezza e forza. Vidi che c’era un cerchio di soldatesse intorno a me, per proteggermi… e più oltre un altro cerchio, a cavallo.

«Mi senti, Leif?… Non ho molto tempo…»

Mi scostai, m’inginocchiai.

«Jim! Jim! Oh, Dio… perché sei venuto qui? Prendi questa spada e uccidimi!»

Lui mi cercò la mano, me la strinse.

«Non fare lo stupido, Leif! Non potevi farci niente… ma devi salvare Evalie!»

«Devo salvare te , Tsantawu… portarti fuori di qui…»

«Taci e ascoltami. Sono spacciato, Leif, e lo so. La lama ha trapassato la cotta di maglia ed è entrata nei polmoni… Mi sto dissanguando… dentro… diavolo, Leif… non prendertela così… Poteva accadere in guerra… poteva accadere in qualunque altro momento… Non è colpa tua…»

Un singhiozzo mi scosse, e le lacrime si mescolarono al sangue sulla mia faccia.

«Ma l’ho ucciso, Jim… l’ho ucciso!»

«Lo so, Leif… un bel lavoro… ti ho visto… ma c’è qualcosa che ti devo dire…» Gli mancò la voce.

Gli accostai alle labbra la boccetta: lo fece rinvenire.

«Adesso… Evalie… ti odia! Devi salvarla… Leif… che ti odii o no. Ascolta. Da Sirk, attraverso il Piccolo Popolo, c’è arrivata notizia che tu volevi incontrarci qui. Fingevi di essere Dwayanu… fingevi di non ricordare nulla tranne Dwayanu… per placare i sospetti e acquisire il potere. Te ne saresti andato di nascosto… saresti venuto a Sirk, e avresti condotto la sua gente contro Karak. Avevi bisogno di me al tuo fianco… avevi bisogno di Evalie per convincere i pigmei…»

«Non ti ho mandato nessun messaggio, Jim!» gemetti.

«Lo so… adesso… Ma ci abbiamo creduto… E tu avevi salvato Sri dai lupi, e avevi sfidato l’Incantatrice…»

«Jim… quanto tempo è passato tra il salvataggio di Sri e il falso messaggio?»

«Due giorni… Che importa? Avevo detto a Evalie che cosa… avevi… Gliel’ho detto molte volte. Lei non ha capito… ma mi ha creduto sulla parola… Dammi ancora un po’ di quella roba, Leif… Sto andando…»

La pozione fiammeggiante lo rianimò di nuovo.

«Siamo arrivati a Sirk… due giorni fa… attraverso il fiume con Sri e venti pigmei… è stato facile… troppo facile… Neppure un lupo ha ululato, benché sapessi che quelle belve ci spiavano… ci seguivano… e anche gli altri. Abbiamo aspettato… poi c’è stato l’attacco… e allora ho capito che eravamo presi in trappola… Come hai superato quei geyser… vecchio mio… Lascia perdere… ma… Evalie crede che sia stato tu a mandare il messaggio… tu… un tradimento…»

Chiuse gli occhi. Le sue mani erano fredde, fredde.

«Tsantawu… fratello… tu non lo credi! Tsantawu… ti prego… parlami…»

Riaprì gli occhi: ma udivo appena la sua voce.

«Non sei Dwayanu… Leif? Né adesso… né mai più?»

«No, Tsantawu… non lasciarmi!»

«Piega… la testa… più vicino, Leif… continua a lottare… salva Evalie.»

La voce divenne più fievole.

«Addio… Degataga… non è colpa tua…»

Un’ombra del vecchio sorriso sardonico passò sul volto pallidissimo.

«Non li hai scelti tu i tuoi… maledetti… antenati!… È sfortuna… Ce la siamo… spassata… insieme… Salva… Evalie…»

Un fiotto di sangue gli sgorgò dalla bocca.

Jim era morto… era morto!

Tsantawu… non era più!

IL LIBRO DI LEIF

XXI

RITORNO A KARAK

Ridistesi Jim e gli posai un bacio sulla fronte. Mi alzai. Ero stordito dall’angoscia. Ma sotto lo stordimento ribolliva una rabbia straziata, un orrore torturante. Una rabbia mortale contro l’Incantatrice e il Fabbro… orrore per me stesso, per ciò che ero stato… orrore di… Dwayanu!

Dovevo trovare Tibur e l’Incantatrice… ma prima c’era un’altra cosa da fare. Quei due ed Evalie potevano aspettare.

«Dara… Ordina di sollevarlo. Portatelo in una delle case.»

Le seguii a piedi, mentre portavano via Jim. I combattimenti continuavano ancora, ma lontano da noi. Lì c’erano soltanto i morti. Immaginai che Sirk stesse tentando l’ultima resistenza in fondo alla valle.

Dara, Naral ed io, ed una mezza dozzina di soldatesse varcammo la porta sfondata di quella che fino al giorno precedente era stata una casa graziosa. Al centro c’era una sala a colonne. Le altre soldatesse si raggrupparono intorno alle porte sfasciate, guardandone l’entrata. Ordinai di portare nella sala sedie e letti e tutto ciò che si poteva bruciare, di preparare un rogo.

Dara disse: «Signore, permettimi di lavarti la ferita.»

Sedetti su uno sgabello e pensai, mentre lei mi lavava lo squarcio alla testa con vino bruciante. Oltre allo strano stordimento, la mia mente era limpidissima. Ero Leif Langdon. Dwayanu non era padrone del mio cervello… e non lo sarebbe stato mai più. Eppure viveva. Viveva come parte di me stesso. Era come se il trauma di riconoscere Jim avesse dissolto Dwayanu in Leif Langdon. Come se due correnti contrastanti si fossero confuse in una; come se due gocce si fossero unite; come se due metalli antagonistici si fossero fusi insieme.

Era limpido come il cristallo ogni ricordo di tutto ciò che avevo udito e visto, detto e fatto e pensato dal momento in cui ero stato scaraventato dal ponte Nansur. E limpido, atrocemente limpido, era tutto quello che era accaduto prima. Dwayanu non era morto, no! Ma era solo una parte di me, ed io ero più forte. Potevo servirmi di lui, della sua forza, della sua saggezza… ma lui non poteva servirsi di me. Adesso comandavo io. Io ero il padrone.

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