E non c’erano file di guerrieri schierati contro di noi. La strada era aperta.
Troppo aperta!
Scorsi lo scintillìo delle armi sui tetti delle case. Vi fu il rumore delle asce, tra gli squilli di tromba e il rullo dei tamburi.
Stavano barricando l’ampia strada servendosi degli alberi, ci preparavano cento imboscate, aspettandosi che noi scendessimo in forze.
Tendevano la rete sotto gli occhi di Dwayanu!
Eppure era una buona tattica. La difesa migliore. L’avevo incontrata in molte guerre contro i barbari. Significava che dovevamo batterci ad ogni passo, casa per casa, mentre le frecce ci cercavano da ogni finestra e da ogni tetto. Avevano un comandante efficiente, lì a Sirk, per preparare una simile accoglienza con un preavviso tanto breve! Provavo rispetto per quel comandante, chiunque fosse. Aveva scelto l’unico sistema che poteva portare alla vittoria… a meno che coloro contro cui combatteva non conoscessero la contromossa.
Ed io la conoscevo: l’avevo imparata a caro prezzo.
Per quanto tempo quel comandante poteva tenere Sirk, entro i suoi mille fortini? Era sempre quello, il pericolo di un simile tipo di difesa. L’impulso travolgente di una città trafitta è avventarsi sugli invasori, come fanno le formiche e le api uscendo dai formicai e dagli alveari. Non sempre c’è un comandante abbastanza forte per impedirlo. Se ogni casa di Sirk poteva rimanere collegata all’altra, se ognuna poteva continuare ad essere una parte attiva del complesso… allora Sirk poteva essere inespugnabile. Ma quando avessero incominciato a venire isolate, una ad una? Tagliate fuori? Quando la volontà del comandante fosse stata isolata?
Allora la disperazione si insinua dovunque! Allora i combattenti vengono trascinati fuori dalla furia e dalla disperazione, come da corde. Escono… per uccidere o per venire uccisi. La muraglia si sgretola, pietra per pietra. La torta viene divorata dagli assalitori, briciola per briciola.
Divisi i nostri soldati, mandai il primo scaglione contro Sirk, in piccole squadre, con l’ordine di spargersi e di approfittare di tutti i ripari. Dovevano prendere le case della fascia più esterna, a tutti i costi, scagliando le frecce in tiri alti e curvi contro i difensori, mentre altri si aprivano la via con i martelli, dentro gli stessi edifici. Altri ancora dovevano attaccare più avanti, ma senza mai allontanarsi troppo dai loro commilitoni né dall’ampia strada che scorreva attraverso la città.
Stavo gettando una rete su Sirk, e non volevo che le sue maglie si spezzassero.
Ormai era giorno fatto.
I soldati avanzarono. Vidi le frecce volare verso l’alto e ricadere, attorcendosi le une alle altre come serpenti… udii le asce battere contro le porte…
Per Luka! Da uno dei tetti garriva una bandiera di Karak! E da un altro!
Il ronzìo di Sirk si fece più alto, più sonoro, con una nota di follìa. Sapevo che non potevano resistere a lungo a quella tattica! E conoscevo quel suono! Presto sarebbe divenuto frenetico. E poi disperato.
Non sarebbe passato molto tempo prima che si lanciassero fuori…
Tibur stava bestemmiando al mio fianco. Guardai Lur, che stava fremendo. Le soldatesse mormoravano, tirando il guinzaglio, ansiose di prendere parte al combattimento. Guardai i loro occhi azzurri, duri e freddi; le facce sotto gli elmi non erano di donne, ma di giovani guerrieri… chi vi avesse cercato la misericordia femminile avrebbe avuto un brutto risveglio!
«Per Zarda! Ma il combattimento finirà prima che noi possiamo usare le spade!»
Io risi.
«Pazienza, Tibur! La pazienza è la nostra arma più forte. E lo sarebbe anche per Sirk… se loro lo sapessero. Lascia che siano loro a perdere per primi quell’arma.»
Il tumulto crebbe. Sulla strada apparve una cinquantina di soldati di Karak, che lottavano contro un numero superiore di avversari, continuamente accresciuto da altri combattenti di Sirk che uscivano dalle stradette laterali, balzavano dai tetti e dalle finestre delle case assediate.
Era quello il momento che avevo atteso!
Impartii l’ordine. Lanciai il mio grido di battaglia. Ci avventammo su di loro. I nostri, impegnati nella scaramuccia, si fecero da parte per lasciarci passare, si confusero tra le file urlanti che ci seguivano. Squarciammo la linea dei difensori di Sirk. Quelli caddero, ma combattevano anche mentre cadevano, e molte selle dei nobili erano vuote, e molti destrieri vennero perduti prima che arrivassimo vittoriosi alla prima barricata.
Come si battevano, dietro gli alberi frettolosamente abbattuti… donne e uomini e bambini cresciuti appena abbastanza per piegare l’arco o per impugnare il coltello!
Le truppe di Karak cominciarono ad attaccarli ai fianchi; le truppe di Karak lanciavano frecce dai tetti delle case che quelli avevano abbandonato: combattevamo Sirk come Sirk aveva progettato di combattere noi. E presto coloro che ci resistevano si divisero e fuggirono, e noi superammo la barricata. Combattendo, raggiungemmo il cuore di Sirk, una grande, bellissima piazza dove cantavano le fontane e sbocciavano i fiori. Quando lasciammo quella piazza, gli spruzzi delle fontane erano cremisi e non c’erano più fiori.
Pagammo un duro prezzo, laggiù. Vennero uccisi metà dei nobili. Una lancia mi aveva colpito l’elmo e per poco non mi aveva abbattuto. A testa scoperta, cavalcavo coperto di sangue, gridando, con la spada che sgocciolava rossa. Naral e Dara erano state entrambe ferite, ma continuavano a guardarmi le spalle. L’Incantatrice e il Fabbro e il suo amico sfregiato continuavano a battersi, illesi.
Vi fu un rombo di zoccoli. Un’ondata di cavalieri si avventò su di noi. Corremmo loro incontro. Ci incastrammo come due pettini. Ci mescolammo. Lampeggiate, spade! Colpite, martelli! Fendete, asce! Adesso si combatteva a corpo a corpo, nel modo che conoscevo meglio e che più amavo!
Girammo, in un turbine folle. Lanciai un’occhiata sulla mia destra e vidi che l’Incantatrice era rimasta divisa da me. Anche Tibur era scomparso. Bene, stavano senza dubbio dando buona prova di sé… dovunque fossero.
Mulinai a destra e a sinistra con la spada. In prima fila tra coloro che ci combattevano, sopra gli elmi di Karak che turbinavano in mezzo a noi, c’era un volto scuro… un volto scuro i cui occhi neri fissavano i miei… fermamente… fermamente. A fianco di quell’uomo c’era una figura più esile, i cui limpidi occhi bruni fissavano i miei… fermamente… fermamente… Negli occhi neri c’era comprensione e angoscia. Gli occhi castani erano pieni d’odio.
Gli occhi neri e gli occhi castani fecero vibrare qualcosa di profondo, dentro di me… Stavano ridestando qualcosa… l’invocavano… qualcosa che dormiva.
Udii la mia voce gridare l’ordine d’interrompere il combattimento, ed a quel grido improvvisamente tutto il frastuono della battaglia, lì intorno, si acquietò. Sirk e Karak erano lì silenziose, sbalordite, a fissarmi. Spinsi il cavallo tra la calca, guardai profondamente in quegli occhi neri.
E mi chiesi perché avevo lasciato cadere la spada… perché stavo fermo così… e perché l’angoscia di quegli occhi mi straziava il cuore…
L’uomo dal volto scuro parlò… due parole…
«Leif!… Degataga!»
… Degataga! …
Ciò che prima dormiva si destò, divampò dentro di me, mi squassò il cervello, l’artigliò… scuotendo ogni nervo…
Udii un grido… la voce dell’Incantatrice.
Un cavallo eruppe dalla cerchia dei soldati. In sella vi era Rascha, le labbra raggricciate a scoprire i denti, gli occhi freddi fissi furiosamente nei miei. Alzò il braccio. Il pugnale scintillò, affondò nel dorso dell’uomo che mi aveva chiamato… Degataga!
Mi aveva chiamato…
Dio… ma io lo conoscevo!
Tsantawu! Jim!
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