Robert Jordan - Il signore del caos

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La ragazza si sedette a gambe incrociate accanto a lei e cominciò a tirare oziosamente dei sassolini nel ruscello. «Nynaeve è tua amica. Ti fidi di lei. E anche Birgitte sembra essere una buona amica. Trascorri più tempo con lei che con Nynaeve.» Aggrottò leggermente la fronte. «Crede davvero di essere la donna delle leggende? Voglio dire, l’arco e la freccia — ogni storia ne parla, anche se l’arma non è d’argento — e non riesco a immaginare che sia nata con quel nome.»

«E invece è così» rispose cauta Elayne: in fondo era vero, ma era il caso di dirottare la conversazione. «Quanto a Nynaeve, non riesce ancora a decidere se sono un’amica o una da costringere a fare ciò che lei ritiene giusto; trascorre più tempo di quanto faccia io rammentandomi che sono l’erede al trono. Credo che a volte ce l’abbia con me. Tu invece non lo fai mai.»

«Forse non ne sono così colpita.» Min sorrideva, ma sembrava comunque seria. «Io sono nata sulle montagne della Nebbia, fra le miniere. Gli editti di tua madre sono deboli, a occidente.» Il sorriso le svanì dal volto. «Mi dispiace, Elayne.»

Dopo aver superato un istante di indignazione — Min era una suddita del trono del Leone quanto Nynaeve! — Elayne si accasciò contro l’albero. «Parliamo di qualcosa di allegro.» Il sole ardeva alto fra i rami e il cielo era azzurro chiaro, senza nemmeno una nuvola all’orizzonte. D’impulso Elayne si aprì a saidar e se ne lasciò colmare: aveva l’impressione che tutta la gioia del mondo fosse stata distillata e ogni goccia di sangue che le scorreva nelle vene fosse stata rimpiazzata da quell’essenza. Se solo fosse riuscita a creare una nuvola, sarebbe stato un segno di buona riuscita. La madre viva. Rand l’avrebbe amata. E Moghedien... avrebbe avuto la sua parte. Lavorò una tenue rete usando Aria e Acqua attraverso il cielo, fin dove poteva vedere, alla ricerca dell’umidità per formare una nuvola. Se si fosse sforzata abbastanza... La dolcezza si trasformò in dolore, un segnale di pericolo. Attingendo troppo Potere si rischiava di quietarsi da sole. Solo una nuvoletta.

«Allegro?» rispose Min. «Be’, so che non vuoi parlare di Rand, ma lui è ancora la persona più importante che io conosca. E la più allegra. I Reietti muoiono quando appare lui e le nazioni si mettono in fila per inchinarsi al suo cospetto. Le Aes Sedai qui sono pronte a sostenerlo. So che è così, Elayne. Devono. Il prossimo passo sarà Elaida che gli consegna la Torre. L’Ultima Battaglia sarà una passeggiata per lui. Sta vincendo, Elayne. Noi stiamo vincendo.»

Dopo aver rilasciato la Fonte, Elayne ricadde indietro fissando il cielo, vuoto come il suo stato d’animo. Non si doveva essere capaci di incanalare per riconoscere l’operato del Tenebroso, e se poteva toccare il mondo in questo modo, se poteva toccarlo... «Stiamo vincendo?» mormorò, a voce troppo bassa perché Min la sentisse.

La residenza non era ancora terminata, le pareti del soggiorno composte da alti pannelli di legno erano chiare e immacolate, ma Faile ni Bashere t’Aybara teneva corte ogni giorno, come era appropriato che facesse la moglie di un signore, su una sedia enorme decorata da incisioni che rappresentavano dei falchi, sistemata proprio davanti a un camino di pietra spoglia, gemello di quello sul lato opposto della stanza. La sedia vuota al suo fianco, decorata con dei lupi e con una grande testa anch’essa di lupo in cima allo schienale, avrebbe dovuto essere occupata dal marito, Perrin t’Bashere Aybara, Perrin Occhidoro, signore dei Fiumi Gemelli.

Chiaramente la tenuta era solo una grossa fattoria, il soggiorno era lungo meno di quindici passi — come l’aveva guardata Perrin, quando Faile aveva insistito perché fosse così grande! Lui era ancora abituato a pensarsi come un fabbro, forse addirittura un apprendista — e il nome di battesimo di lei era Zarine, non Faile. Quelle cose al momento erano irrilevanti. Zarine era il nome di una donna languida che sospirava tremante sui poemi composti per guadagnarsi i suoi sorrisi. Faile era il nome che si era scelta quando aveva prestato giuramento come Cercatrice del Corno di Valere, e significava ‘falco’ nella lingua antica. Chiunque osservasse con attenzione quel naso prominente, gli zigomi alti e gli occhi scuri a mandorla che lampeggiavano quando era arrabbiata, sapeva subito quale dei due nomi le si addicesse. Per il resto, contavano molto le intenzioni. Come anche ciò che era giusto e appropriato.

In quel momento, gli occhi di Faile lampeggiavano, ma la cosa non aveva nulla a che fare con la testardaggine di Perrin e poco con il caldo irragionevole. Per la verità, il futile lavorio con il ventaglio di piume, nella speranza che impedisse al sudore di colarle sulle guance, non contribuiva affatto a migliorare il suo umore.

A quell’ora tarda del pomeriggio di quella folla che era venuta a chiederle di risolvere le dispute erano rimasti in pochi. In realtà i più volevano essere ascoltati da Perrin, ma l’idea di giudicare persone con le quali era cresciuto lo disgustava. A meno che Faile non riuscisse a chiuderlo in un angolo, svaniva come un lupo nella nebbia quando giungeva il momento dell’udienza. Per fortuna alla gente non dispiaceva che fosse lady Faile ad ascoltare anziché lord Perrin, e i pochi di parere contrario erano abbastanza saggi da nasconderlo.

«Siete state voi a parlarne» disse atona. Le due donne che sudavano copiosamente davanti a lei cambiarono posizione a disagio, fissando il pavimento di legno lucido.

Le curve floride di Sharmad Zeffar dalla pelle ramata erano coperte, anche se non nascoste, da un abito domanese a collo alto ma decisamente trasparente, in seta chiara color oro, consumato intorno al colletto e ai polsini, con ancora qualche macchia dovuta al viaggio. La seta era seta, e in quel luogo era una rarità. Pattuglie inviate sulle montagne della Nebbia alla ricerca dei superstiti dell’invasione Trolloc dell’estate precedente avevano scoperto poche delle creature bestiali — e nessun Myrddraal, grazie alla Luce — ma in compenso trovavano dei profughi quasi ogni giorno, dieci in una zona, venti da un’altra parte, cinque ancora altrove. La maggior parte proveniva dalla piana di Almoth, ma molti erano di Tarabon e, come Sharmad, dell’Arad Doman, tutti in fuga da terre sconvolte dall’anarchia oltre che dalla guerra civile. Faile non voleva pensare a quante persone erano morte sulle montagne. Senza strade o sentieri, i picchi non erano facili da attraversare in tempi buoni, e quelli attuali erano tempi tutt’altro che buoni.

Rhea Avin non era una profuga, anche se aveva addosso la copia di un abito di Tarabon in lana fine, con delle morbide pieghe grigie che enfatizzavano la figura quasi quanto l’abito sottile di Sharmad. Quelli che sopravvivevano alla lunga traversata delle montagne portavano con sé voci non solo inquietanti, ma anche inedite nei Fiumi Gemelli e altre mani per lavorare nei campi spopolati dai Trolloc. Rhea era una donna graziosa dal viso rotondo, nata a meno di due chilometri da dove sorgeva la tenuta, e aveva i capelli scuri raccolti in una lunga treccia che le arrivava fino alla vita. Nei Fiumi Gemelli le ragazze non intrecciavano i capelli fino a quando la Cerchia delle Donne dichiarava che fossero abbastanza grandi per sposarsi, avessero quindici o trent’anni, anche se poche superavano i venti. Rhea aveva almeno cinque anni più di Faile e portava i capelli raccolti in una treccia da quattro anni, ma in questo momento pareva che avesse ancora i capelli sciolti sulle spalle e si era appena accorta di come quella che le era sembrata un’idea fantastica nel momento in cui l’aveva pensata era in effetti la cosa più stupida che avesse potuto fare. Per inciso, Sharmad pareva vergognarsi più di lei, anche se aveva un anno o due più di Rhea. Per una Domanese trovarsi in una simile situazione doveva essere umiliante. Faile avrebbe voluto prenderle entrambe a schiaffi — solo che una lady non poteva farlo.

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