Robert Jordan - Presagi di tempesta

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I segni sono inequivocabili: l’Ultima Battaglia si avvicina. Rand al’Thor, il Drago Rinato, è determinato a stipulare una pace con gli invasori Seanchan. Per ottenerla, vuole dimostrare la sua buona fede riportando l’ordine nell’Arad Doman, un paese sotto attacco dei Seanchan, ma anche privo di un re… e dietro la sparizione del sovrano potrebbe esserci Graendal, una dei Reietti, maestra nella Coercizione. Nel frattempo, sia Mat che Perrin, superate varie vicissitudini, stanno cercando di tornare verso l’Andor per riunirsi a Rand prima dell’Ultima Battaglia.
Ancora più difficile è il compito di Egwene: catturata e ridotta a novizia nella Torre Bianca, è riuscita a instillare il dubbio in molte delle Aes Sedai rimaste fedeli a Elaida, tanto che alcune di loro prestano ascolto alle sue parole e le chiedono addirittura consiglio. Ma sulla Torre incombe lo spettro di un attacco dei Seanchan: Egwene l’ha sognato e sa che avverrà e anche molto presto.
Tarmon Gai’don, l’Ultima Battaglia, si avvicina. Ma l’umanità non è pronta.

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Il vento diede buffetti a qualche vestito, fece cadere qualche capo di bucato da dov’era appeso, poi proseguì con impeto verso ovest. Verso ovest, oltre il torreggiante Montedrago, con la sua vetta spaccata e fumante. Sopra le Colline Nere e lungo l’estesa Prateria di Caralain. Qui sacche di neve riparata si aggrappavano alle ombre sotto strapiombi scoscesi o accanto all’occasionale macchia di palissandri montani. Era tempo che arrivasse la primavera, tempo che nuovi germogli facessero capolino fra la coltre invernale e che delle gemme sbocciassero sugli esili rami dei salici. Poche di queste cose erano davvero spuntate. La terra era ancora dormiente, come in attesa, trattenendo il fiato. Il calore innaturale dell’autunno precedente si era protratto per buona parte dell’inverno, opprimendo la terra con una siccità che aveva sottratto la vita a tutte le piante tranne quelle più vigorose. Quando finalmente l’inverno era arrivato, lo aveva fatto con una tempesta di ghiaccio e neve, un gelo incombente e assassino. Ora che il freddo si era finalmente ritirato, i confusi agricoltori cercavano invano una speranza. Il vento soffiò sull’erba scurita dall’inverno, scuotendo i rami ancora spogli degli alberi. A ovest, mentre si avvicinava alla terra conosciuta come Arad Doman — sormontando colline e basse vette — qualcosa sbatte all’improvviso contro di esso. Qualcosa di invisibile, qualcosa generato dall’oscurità distante a nord. Qualcosa che scorreva contro il flusso e le naturali correnti dell’aria. Il vento ne fu consumato, spinto verso sud in un refolo, sopra bassi picchi e pendii bruni, fino a un maniero in legno, isolato, posto sulle colline dense di pini nell’Arad Doman orientale. Il vento soffiò sopra il maniero e le tende montate nell’ampio campo aperto davanti a esso, scuotendole assieme ad aghi di pino.

Rand al’Thor, il Drago Rinato, era in piedi, con le mani dietro la schiena mentre guardava fuori dalla finestra aperta del maniero. Pensava ancora a esse a quel modo, le sue ‘mani’, anche se ora ne aveva solo una. Il suo braccio sinistro terminava in un moncherino. Poteva avvertire la liscia pelle guarita da saidar con le dita della sua mano sana. Eppure sentiva come se l’altra mano fosse lì per essere toccata.

Acciaio, pensò. Io sono acciaio. Questo non si può aggiustare, perciò devo andare avanti. L’edificio — una struttura fatta con spessi tronchi di pino e cedro secondo un progetto che piaceva ai ricchi domanesi — gemette e si assestò al vento. Qualcosa in quel vento puzzava di carne marcia. Un odore non insolito, in quei giorni. Carne guastatasi senza preavviso, a volte solo pochi minuti dopo essere stata macellata. Essiccarla o metterla sotto sale non aiutava. Era il tocco del Tenebroso, e cresceva al passare di ogni giorno. Quanto tempo sarebbe trascorso prima che diventasse tanto schiacciante, tanto untuoso e nauseabondo quanto la corruzione che un tempo aveva ricoperto saidin, la metà maschile dell’Unico Potere?

La stanza in cui si trovava era lunga e ampia, con spessi tronchi che formavano la parete esterna. Le altre erano costituite da assi di pino, che ancora odoravano debolmente di resina e mordente. La camera era scarsamente ammobiliata: un tappeto di pelliccia sul pavimento, un paio di vecchie spade incrociate sopra il caminetto, arredi in legno che in alcuni punti conservavano ancora della corteccia. Quel posto era stato decorato in modo tale da affermare che era una casa idilliaca nei boschi, lontana dal trambusto delle grandi città. Non una capanna, ovviamente: era troppo grande e lussuosa per quello. Un ritiro.

«Rand?» domandò piano una voce. Lui non si voltò, ma percepì le dita di Min toccargli il braccio. Un momento dopo le sue mani si spostarono in vita, e sentì la sua testa che gli si appoggiava sul braccio. Poteva avvertire la sua preoccupazione per lui attraverso il legame che condividevano.

Acciaio, pensò lui.

«So che non ti piace…» esordì Min.

«I rami» disse lui, facendo un cenno col capo fuori dalla finestra. «Vedi quei pini, appena a fianco del campo di Bashere?»

«Sì, Rand. Ma…»

«Si incurvano nella direzione sbagliata» disse Rand.

Min esitò e, anche se non ebbe alcuna reazione fisica, il legame gli trasmise il suo improvviso allarme. La loro finestra si trovava al piano superiore del maniero e, lì fuori, i vessilli disposti sopra l’accampamento sventolavano l’uno contro l’altro: la bandiera della Luce e lo stendardo del Drago di Rand, e una bandiera azzurra molto più piccola con tre boccioli di centesimo del re a indicare la presenza della casata Bashere. Tutti e tre garrivano orgogliosi… Eppure proprio di fianco a essi, gli aghi sui pini si muovevano in direzione opposto.

«Il Tenebroso è irrequieto, Min» disse Rand. Poteva quasi pensare a questi venti come risultato della sua stessa natura di ta’veren, ma gli eventi che lui causava erano sempre possibili. Il vento che soffiava in due direzioni allo stesso tempo… be’, Rand poteva percepire che il modo in cui quei pini si muovevano era sbagliato, perfino se aveva problemi a distinguere i singoli aghi. La sua vista non era stata più la stessa dall’attacco nel giorno in cui aveva perso la mano. Era come se… come se guardasse qualcosa di distorto attraverso l’acqua. Stava migliorando, lentamente.

Questo edificio faceva parte di una lunga serie dì manieri, ville e altri remoti nascondigli che Rand aveva usato nelle ultime settimane. Dopo il suo fallimentare incontro con Semirhage, aveva voluto continuare a muoversi, balzando da un luogo a un altro. Aveva desiderato tempo per pensare, per riflettere e, magari, per confondere i nemici che potevano essere sulle sue tracce. Il maniero di lord Algarin a Tear era stato compromesso; un peccato. Quello era stato un buon posto dove soggiornare. Ma Rand doveva continuare a muoversi.

Sotto, i Saldeani di Bashere avevano approntato un campo sul prato del maniero, l’aperta distesa erbosa sul davanti, contornata da file di pini e faggi. Definirla erbosa sembrava un’ironia, di questi tempi. Perfino prima dell’arrivo dell’esercito, quelle stoppie rese brune dall’inverno erano interrotte solo di tanto in tanto da nuovi fili esitanti. Ma erano stati malaticci e giallastri, e ora erano stati schiacciati da zoccoli o stivali.

Le tende ricoprivano il prato. Dalla sua posizione elevata al secondo piano, a Rand quelle linee ordinate di piccole tende a punta ricordavano i riquadri su un tabellone di sassolini. I soldati avevano notato il vento. Alcuni indicavano, altri tenevano la testa bassa, lucidando l’armatura, portando secchi d’acqua alle linee dei cavalli, affilando spade o punte di lancia. Perlomeno non si trattava di nuovo dei morti che camminavano. Anche l’uomo dal cuore più saldo poteva perdere la propria determinazione quando gli spiriti sorgevano dalle proprie tombe, e Rand aveva bisogno che il suo esercito fosse forte.

Bisogno. Non si trattava più di quello che Rand voleva o desiderava. Tutto quello che faceva era incentrato solo sulle necessità , e quello di cui aveva più bisogno erano le vite di coloro che lo seguivano. Soldati per combattere, morire e preparare il mondo per l’Ultima Battaglia. Tarmon Gai’don stava arrivando. Quello di cui aveva bisogno era che fossero tutti abbastanza forti per vincere.

All’estremità sinistra del prato, un torrente tortuoso scorreva sotto la modesta collina sulla quale sorgeva il maniero e tagliava il terreno in cui spuntavano canne lunghedita gialle e cespugli che dovevano ancora punteggiarsi di gemme primaverili. Un piccolo corso d’acqua, certo, ma un’ottima fonte d’acqua fresca per l’esercito.

Appena fuori dalla finestra, i venti si corressero all’improvviso e le bandiere sferzarono, garrendo nell’altra direzione. Allora non erano stati gli aghi di pino, ma gli stendardi ad andare nella direzione sbagliata. Min esalò un sospiro sommesso e lui riuscì a percepire il suo sollievo, anche se era ancora preoccupata per lui. Di recente, quell’emozione era una costante. Rand la percepiva da tutte quante, con ciascuno dei quattro grovigli di emozioni rannicchiati in fondo alla sua mente. Tre per le donne a cui lui aveva consentito di posizionarsi lì, uno per quella che si era imposta a lui contro la sua volontà. Una di loro si stava avvicinando: Aviendha, che stava venendo con Rhuarc al maniero per incontrare Rand.

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