Robert Jordan - Il cuore dell’inverno

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«Non riesco a resistere più a lungo.»

Cadsuane esitò, qualcosa che non era abituata a fare. La ragazza non poteva lasciare il circolo finché il giovane al’Thor non l’avesse rilasciata, ma, a meno che questi Choedan Kal non fossero difettosi allo stesso modo di Callandor , sarebbe stata schermata in modo da impedirle di incamerare tanto Potere da danneggiarla. Tranne che stava agendo come condotto per molto più saidar di quanto l’intera Torre Bianca avrebbe potuto maneggiare usando ogni angrel e sa’angreal che possedeva. Dopo aver mantenuto quel flusso attraverso di lei per ore, la semplice spossatezza fisica avrebbe potuto ucciderla. Inginocchiandosi accanto alla ragazza, Cadsuane appoggiò la rondine sul terreno accanto a sé, prese il capo della ragazza fra le mani e diminuì la quantità di saidar che stava trasferendo nello scudo. La sua capacità di Guarire non era superiore alla media, ma poteva almeno spazzar via parte della spossatezza della ragazza senza svenire lei stessa. Era estremamente consapevole dello saldo indebolito sopra di loro, però, e non perse tempo a formare i flussi.

Inerpicandosi verso la cima della collina, Osan’gar si gettò al suolo sulla pancia e sorrise mentre strisciava di lato per ripararsi dietro un albero. Da qui, con saidin dentro di sé, poteva vedere con chiarezza la cresta successiva e le persone su di essa. Non tante quante immaginava. Una donna stava percorrendo un lento cerchio attorno alla cresta, scrutando fra gli alberi, ma tutti gli altri erano immobili, Narishma seduto con Callandor che gli luccicava fra le mani e la testa di una donna sul ginocchio. Osan’gar riusciva a vedere altre due donne, una inginocchiata sopra all’altra, ma erano oscurate dalla schiena di un uomo. Non aveva bisogno di vedere il volto dell’uomo per sapere che si trattava di al’Thor. La chiave appoggiata sul terreno al suo fianco lo rivelava. Agli occhi di Osan’gar, rifulgeva vivida. Nella sua testa sopraffaceva il sole, mille soli. Cosa avrebbe potuto fare con essa! Un peccato che dovesse essere distrutta insieme ad al’Thor. Ma comunque poteva prendere Callandor dopo che al’Thor fosse morto. Nessun altro fra i Prescelti possedeva un angreal di tale potenza. Perfino Moridin sarebbe impallidito davanti a lui non appena avesse avuto quella spada di cristallo. Nae’blis? Osan’gar sarebbe stato nominato Nae’blis dopo aver distrutto al’Thor e disfatto tutto ciò che lui aveva compiuto qui. Ridendo piano, intessé il fuoco malefico. Chi avrebbe mai pensato che lui sarebbe diventato l’eroe del giorno?

Camminando lentamente, studiando la foresta attorno a loro, Elza si fermò all’improvviso quando con la coda dell’occhio colse un guizzo di movimento. Voltò piano la testa, e non fino alla collina dove aveva visto quel guizzo. La giornata era stata molto difficile per lei. Nel corso della sua prigionia nelle tende aiel a Cairhien era arrivata alla conclusione che era della massima importanza che il Drago Rinato raggiungesse l’Ultima Battaglia. All’improvviso era diventato ovvio in maniera così abbagliante che la meravigliava non essere riuscita a capirlo prima. Ora le era chiaro, tanto chiaro quanto saidar rendesse il volto dell’uomo che cercava di nascondersi su quella collina mentre faceva capolino da un tronco d’albero. Oggi era stata costretta a combattere i Prescelti. Di certo il Sommo Signore avrebbe compreso se lei avesse effettivamente ucciso qualcuno di loro, ma Corlan Dashiva era solo uno di quegli Asha’man. Dashiva sollevò una mano verso la collina dove lei si trovava, ed Elza attinse più che poteva da Callandor fra le mani di Jahar. Saidin le sembrò più adatto alla distruzione. Un’enorme palla di fuoco incandescente circondò la sommità dell’altra collina, rossa, oro e blu. Quando fu svanita, l’altra collina terminava in una superficie liscia cinquanta piedi più in basso rispetto alla vecchia cresta. Moghedien non era sicura del perché fosse rimasta ferma così a lungo. Non potevano restare più di due ore di luce solare e la foresta era silenziosa. Tranne per la chiave, non riusciva a percepire saidar che veniva incanalato da nessuna parte. Questo non equivaleva a dire che qualcuno non ne stesse usando delle piccole quantità da qualche parte, ma nulla di paragonabile alla furia che aveva imperversato prima. La battaglia era terminata, gli altri Prescelti morti o in fuga sconfitti. Un’evidente sconfitta, dato che la chiave risplendeva ancora nella sua testa. Era stupefacente che i Choedan Kal fossero riusciti a sopportare per così tanto tempo un uso ininterrotto a un tale livello. Distesa sulla pancia sopra il suo punto di osservazione con il mento fra le mani, stava guardando l’enorme cupola. Definirla nera non sembrava più sufficiente a descriverla. Non c’era alcun termine per essa, ora, ma il nero a paragone era un colore pallido. Era una semisfera, adesso, che si ergeva come una montagna per due miglia o più nel cielo. Uno spesso strato d’ombra era steso tutt’attorno, come se stesse risucchiando l’ultima luce dall’aria. Non riusciva a capire per quale motivo non fosse spaventata. Quella cosa sarebbe potuta crescere fino ad avviluppare il mondo intero, o forse a mandarlo in pezzi, come aveva detto Aran’gar. Ma se ciò fosse successo, non ci sarebbe stato alcun luogo sicuro, nessun’ombra perché il Ragno vi si potesse nascondere. All’improvviso qualcosa si contorse da quella scura superficie liscia, come una fiamma, se le fiamme fossero state più nere del nero, poi un’altra, e un’altra ancora, finché la cupola non ribollì di un fuoco stigeo. Il fragore di diecimila tuoni la costrinse a coprirsi le orecchie con le mani e a strillare, un urlo impercettibile in quel frastuono, e la cupola collassò su sé stessa nello spazio di un batter di ciglia fino a una capocchia di spillo, fino a un nonnulla. Poi fu il vento a ululare, spirando forte verso la cupola svanita, trascinandola lungo il terreno accidentato per quanto lei tentasse di trovare un appiglio, facendola ruzzolare contro gli alberi, sollevandola in aria. Stranamente, non provò alcuna paura. Pensò che se fosse sopravvissuta a questo non avrebbe avuto più paura di nulla. Cadsuane lasciò che la cosa che era stata un ter’angreal cadesse a terra. Non poteva più essere definita la statua di una donna. Il volto era saggio e sereno come sempre, ma la figura era spezzata in due e grumosa come cera fusa dove un lato si fosse liquefatto, incluso il braccio che teneva la sfera di cristallo che ora giaceva in pezzi attorno all’oggetto rovinato. La figura maschile era integra, e già riposta nelle sue bisacce. Anche Callandor era al sicuro. Era meglio non lasciare alcuna tentazione in bella vista sulla collina. Dove si era trovata Shadar Logoth ora c’era un enorme buco nella foresta, perfettamente tondo e tanto largo che perfino col sole basso sull’orizzonte poteva vedere l’estremità opposta digradare nella terra. Lan, conducendo il suo cavallo da guerra zoppicante su per il pendio, lasciò andare le redini dello stallone nero quando vide Nynaeve stesa a terra e coperta fino al mento col mantello. Il giovane al’Thor giaceva al suo fianco, anche lui col mantello come coperta, con Min rannicchiata accanto a lui, la testa sul suo petto. Gli occhi di lei erano chiusi, ma a giudicare dal suo piccolo sorriso non era addormentata. Lan rivolse loro appena uno sguardo mentre colmava di corsa la lunga distanza che lo separava da Nynaeve, e cadeva in ginocchio per sollevarle gentilmente la testa sul suo braccio. Lei non si mosse più del ragazzo.

«Sono solo privi di sensi» gli disse Cadsuane. «Corele dice che è meglio lasciare che si riprendano da soli.» Quanto tempo ci sarebbe voluto, Corele non era stata in grado di dirlo. Né era stato capace Damer: le ferite del ragazzo non erano cambiate, anche se lui si sarebbe aspettato il contrario. Era tutto molto preoccupante.

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