Per Saltus, la scena significava una sola cosa: guerra civile.
Si fermò, d’un tratto, colpito da un nuovo pensiero, fissando con gli occhi sbarrati per la sorpresa i corpi sepolti dalla neve. Ramjets… che avevano fatto saltare Chicago… per ritorsione? I ramjets che avevano perduto, a Chicago, venti anni prima, prigionieri del loro stesso muro, che ora avevano colpito con ferocia, per rappresaglia? Ramjets, che avevano lavorato insieme ai cinesi, legati a loro da un odio comune per l’uomo bianco, per l’establishment bianco?
Guardò di nuovo il cadavere vicino al tronco d’albero, scendendo fin laggiù, ma era impossibile, ormai, distinguere il colore della pelle.
Arthur Saltus risalì il pendio.
Il mondo era stranamente vuoto e silenzioso… deserto, abbandonato. Non aveva visto alcun traffico sulla lontana autostrada, né sulla vicina ferrovia; il cielo era stranamente sgombro di aerei. Saltus era rimasto sempre in guardia, pronto al pericolo, ma non aveva visto nessuno, niente… nella neve non c’erano neppure delle orme di animali. Un mondo deserto… o, più probabilmente, un mondo nascosto. Quella voce rabbiosa, alla radio, gli aveva ordinato di tacere, per non rivelare il suo nascondiglio.
Saltus rimase solo per pochi altri minuti sulla fredda collina, in piedi tra i rottami dell’auto distrutta. Sperava davvero che William fosse riuscito a saltare giù prima che il mortaio avesse distrutto la macchina. Il vecchio soldato meritava di restituire almeno un paio di colpi ai banditi, prima che i suoi profeti di sciagure fossero discesi a prenderlo.
Alla fine si convinse che il maggiore era morto lassù.
Saltus passò accanto all’edificio della mensa, dandogli solo un’occhiata di sfuggita. Come le caserme, le parti in legno della costruzione erano state bruciate. Pensò che, probabilmente, i ramjets avevano saccheggiato la base, dopo aver praticato la breccia nella barriera, bruciando tutte le parti infiammabili e rubando o distruggendo il resto. Era una incredibile fortuna quella che aveva avuto… perché il laboratorio era stato costruito per sopportare guerre e terremoti; altrimenti lui sarebbe uscito in una stanza aperta sotto il cielo, e sarebbe sceso dal veicolo nella neve. Sperò che i banditi fossero morti di fame da molto tempo… ma nello stesso momento ricordò le provviste mancanti nel deposito.
Quel bandito non era morto di fame, ma non aveva neppure dato da mangiare ai suoi compagni. Come aveva latto a entrare dalla porta chiusa? Avrebbe avuto bisogno di entrambe le chiavi, e avrebbe dovuto prenderle a William… ma un colpo diretto sull’auto avrebbe mandato chissà dove le chiavi, come tutti gli altri pezzi del veicolo. E presumendo che il bandito fosse entrato in possesso delle chiavi, perché non aveva aperto la porta ai suoi compagni? Perché il deposito non era stato saccheggiato, ripulito, perché il laboratorio non era stato messo a ferro e fuoco? Quell’uomo era stato così egoista da tenere per sé la scoperta, nutrendosi e coprendosi mentre i suoi compagni morivano? Forse; ma non mancava solo un paio di stivali; ne mancavano altri.
Saltus girò un angolo a velocità folle, frenando subito nella neve, e poi ripartendo verso il cancello principale. Fu un piccolo sollievo trovare la garitta ancora in piedi; era difficile bruciare o distruggere dei blocchi di cemento. Il cancello era spalancato, era stato piegato e divelto e gettato da una parte. Varcò lo spazio vuoto, e si concentrò sulla traccia appena visibile della strada, davanti a lui; la distesa immacolata di neve mostrava ai lati degli avvallamenti, e questa era l’unica traccia che lo guidava. E pensare che appena giovedì scorso lui e William avevano viaggiato su quella strada, per passare la giornata a Joliet.
Un uomo barbuto balzò fuori della garitta, e sparò contro il finestrino posteriore dell’auto.
Arthur Saltus non perse tempo a decidere se era sorpreso o infuriato… lo sparo Io spaventò, e lui reagì automaticamente al pericolo. Schiacciando al massimo l’acceleratore, girò con violenza il volante, descrivendo una curva impressionante. La macchina scivolò e ondeggiò, ma descrisse il suo arco, puntando contro la garitta. Saltus schiacciò ancora l’acceleratore. Le ruote posteriori girarono a vuoto sulla neve e riuscirono a ripartire solo quando ebbero incontrato il terreno, e allora la macchina sfrecciò in avanti, a una velocità che trovò Saltus impreparato. L’auto attraversò lo spazio del cancello zigzagando paurosamente. La macchina andò a urtare con forza la porta della garitta, e nello stesso momento Saltus balzò a terra, tenendosi stretto al fianco del veicolo.
Saltus sparò in rapida successione nella porta traballante, e come risposta udì un grido di dolore; sparò di nuovo, e poi si arrampicò sul cofano della macchina, per affacciarsi sulla porta. L’uomo che urlava era disteso a terra, e si stringeva il petto insanguinato. Un negro alto e magro era appoggiato alla parete opposta, e stava prendendo la mira per sparargli. Saltus sparò senza sollevare il fucile, e poi, deliberatamente, si girò e finì con un colpo nella fronte l’uomo che si torceva disperatamente al suolo. Le grida terminarono.
Per un istante il mondo fu avvolto nel silenzio.
Saltus disse: — E adesso, cosa diavolo…
Un colpo di violenza incredibile lo scosse, un colpo alla schiena, che gli tolse il fiato e gli fece morire in gola la frase che aveva iniziato, e poi Saltus udì il rumore dello sparo, che pareva giungere da distanze inimmaginabili. Barcollò e cadde in ginocchio, mentre un incendio furioso esplodeva nella sua spina dorsale, e risaliva fino al cranio. Un altro sparo lontano ruppe la pace di quel mondo silenzioso, ma questa volta Saltus non sentì nulla. In ginocchio, cercò di voltarsi per affrontare la minaccia.
Il ramjet si stava arrampicando sul cofano della macchina, per prenderlo.
Impacciato, come un uomo proteso a nuotare tra le sabbie mobili, Saltus sollevò il fucile, e cercò di prendere la mira. L’arma era pesante, quasi troppo per essere mossa; Saltus si muoveva, con un movimento lento e dolorosissimo. Il ramjet si gettò su di lui, cercando di prendergli il fucile o di immobilizzarlo. Saltus guardò il viso, ma il viso non era che una chiazza confusa, che non poteva inquadrare chiaramente. Qualcuno, dietro il viso, torreggiava sopra di lui, grande come una montagna; le mani di qualcuno afferrarono la canna del fucile, pei strappargliela. Saltus tirò il grilletto.
Il viso torreggiante cambiò: si disintegrò in un confuso turbine di ossa, sangue e pelle, si disintegrò come l’auto elettrica di William sotto il fuoco di un mortaio. Il viso confuso scomparve, mentre un tuono tremendo riempiva la garitta e faceva scuotere la porta divelta. Un enorme frammento della montagna ondeggiò sopra di lui, minacciando di seppellirlo, al momento della caduta. Saltus cercò, disperatamente, di allontanarsi, strisciando sul terreno.
Il corpo che cadeva lo colpì sulle ginocchia, e fece schizzare via il fucile. Saltus rimase sepolto dalla massa, cercando di respirare, disperatamente, e pregando Dio di non venire schiacciato.
Arthur Saltus aprì gli occhi e vide che la luce del giorno se ne era andata. Un peso intollerabile lo schiacciava sul pavimento della garitta, e un dolore insopportabile scuoteva il suo corpo.
Muovendosi faticosamente — ogni movimento gli costava un tremendo dolore — ma avanzando solo di pochi centimetri per volta, cercò di uscire dalla massa che lo schiacciava, di rovesciarla. Dopo minuti — oppure ore? — di sforzi disperati, riuscì a emergere e a inginocchiarsi, e si tolse lo zaino che gli produceva un dolore martellante alla schiena; prima di gettare via la borraccia, cercò di bere, versando molta acqua sul terreno. Il fucile giaceva al suolo, accanto alle sue gambe, ma con sorpresa si accorse di non avere nella mano e nel braccio la forza sufficiente per raccoglierlo. Gli occorse un periodo che gli parve di un’ora per estrarre di sotto il pesante giaccone a pelo l’automatica.
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