Wilson Tucker - L'anno del sole quieto

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L'anno del sole quieto: краткое содержание, описание и аннотация

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Brian Chaney, esperto dell’antica Palestina e di manoscritti biblici, viene reclutato per una missione molto rischiosa: la prima esplorazione fisica del futuro, resa possibile dall’invenzione del Veicolo per la Dislocazione nel Tempo, un progetto coperto dal più assoluto segreto. Chaney possiede tutti i necessari requisiti, ma soprattutto uno di essi lo rende l’individuo ideale per un simile compito: egli è infatti l’autore del più completo ed esauriente studio estrapolativo sul nostro futuro. La prima missione è quella di spostarsi di pochi anni per scoprire l’esito di un’imminente elezione presidenziale, tuttavia quest’epoca a noi vicinissima già comincia ad assumere inquietanti connotati, tra cui la degenerazione di una città come Chicago, sconvolta da sanguinosi disordini e divisa a metà da una sconcertante muraglia. Ma il vero obiettivo di Chaney è uno spostamento temporale di vari decenni, dove sarà testimone di un futuro ancora più tragico e disperato, al di là delle sue più pessimistiche previsioni: qui infatti un clima di paura e desolazione, segnato da violentissimi scontri razziali e da una vera e propria guerra civile, dipinge il crepuscolo degli Stati Uniti. Si è forse avverato ciò che aveva preconizzato un profeta ebraico sugli antichi documenti trovati nel Mar Morto, l’Eschatos o “la fine delle cose”, e che Chaney conosce fin troppo bene perchè ne è stato il traduttore? E sarà ancora possibile cambiare il corso di un futuro già annunciato da millenni? Lucido e vibrante, ma al tempo stesso profondamente toccante e umano, questo capolavoro di Wilson Tucker, maestro indiscusso delle avventure temporali, narra di un futuro in cui si ritrovano in una sintesi di rara forza espressiva tutti i temi d’inquietudine del nostro presente.

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Saltus decise di non prendere né la radio né il registratore, essendo il peso già notevole; sarebbe già stato scomodo, senza, e tutti i segni parevano indicare che la ricognizione era perduta, e non aveva lasciato alcuna traccia. Chicago era perduta, proibita, e Joliet avrebbe potuto costituire un problema. Ma lui poteva fare qualcosa con il registratore e con il breve messaggio di William… qualcosa per assicurarne il ritorno alla base di partenza. Un ultimo esame della stanza non gli suggerì altri oggetti da portare con sé. Spense le luci e bevve un lungo sorso della sua provvista di bourbon, che si assottigliava sempre di più, e lasciò il deposito. Il corridoio era vuoto e polveroso, e gli parve di vedere le sue impronte, nella polvere.

Portò il registratore, con il cordone dondolante, nella stanza delle operazioni, dove il veicolo aspettava nel suo serbatoio di poliacqua. Una ricerca attenta nella stanza non gli rivelò nessuna presa di elettricità; perfino i fili che facevano funzionare l’orologio e il calendario erano nascosti nella parete, venivano dall’altra parte del muro e non erano visibili.

— Maledizione! — Saltus si girò, guardando i due occhi di vetro. — Perché voi ragazzi non siete capaci di fare qualcosa di giusto, almeno per una volta? Perfino il vostro schifoso giroscopio a protoni è… è Sheeg!

Uscì dalla stanza, camminò lungo il corridoio polveroso fino a raggiungere la porta del laboratorio adiacente, e diede alla porta un sonoro calcio, per avvertire i tecnici del suo scontento. Questo avrebbe dovuto scuotere i tecnici.

Spalancò la bocca, quando vide la porta spalancarsi sotto il colpo. Nessuno la richiuse. Saltus si avvicinò, e guardò dentro. Nessuno lo respinse. Il laboratorio era vuoto. Vi entrò, e si guardò intorno; era la prima volta che vedeva il centro operativo del progetto, e l’impressione non fu delle migliori.

Anche nel laboratorio alcune lampade erano bruciate, senza essere cambiate. Un gruppo di tre monitor occupava un pannello che copriva quasi una parete, alla sua sinistra; uno dei monitor era spento e silenzioso, ma i due restanti gli diedero una visione confusa e insoddisfacente della stanza che aveva appena lasciato. Il veicolo era riconoscibile soltanto per la sua forma, e per il serbatoio che lo ospitava. Le due immagini erano difettose, come se gli apparecchi fossero invecchiati, deteriorandosi, senza che nessuno li sostituisse. Si girò, lentamente, e guardò con attenzione il locale; non c’era alcun segno di occupazione, per lo meno recente. Gli strumenti e gli apparecchi c’erano… e funzionavano ancora… ma il personale del laboratorio era svanito, lasciando solo polvere e segni nella polvere. Una spia gialla di un computer lo guardava, considerandolo probabilmente un intruso.

Saltus posò il registratore, e lo collegò alla presa.

Disse, senza preamboli:

— Chaney, la casa del tesoro è vuota, abbandonata… i tecnici se ne sono andati. Non mi chieda dove e perché… non ci sono segni né indizi, e non hanno lasciato alcun messaggio. Adesso sono nel laboratorio, ma qui non c’è nessuno, all’infuori dei topi e di me. La porta era aperta, più o meno, e io sono entrato. — Bevve un sorso di bourbon, ma questa volta non si preoccupò di nasconderlo al registratore.

— Adesso vado a cercare William. Mi aspetti, Katrina, deliziosa strega. Buon compleanno, gente.

Saltus staccò il registratore, avvolse il cordone intorno allo strumento, e ritornò nell’altra stanza, per calare l’apparecchio nel TDV. Per compensare l’aumento di peso, staccò la telecamera sistemata nella bolla, e la gettò fuori, non prima di avere recuperato le pellicole. Sperava che l’agente di collegamento mandato da Washington piangesse calde lacrime sulla perdita. Saltus chiuse il portello, e uscì dalla stanza.

Il corridoio terminò e le scale lo portarono in alto, verso l’uscita di servizio, la “porta delle operazioni”, come la chiamavano. Il cartello che proibiva di portare armi oltre la porta era stato cancellato; una chiazza di vernice nera copriva tutte le lettere.

Saltus guardò l’ora e infilò le chiavi nelle aperture. Un campanello suonò, dietro di lui, quando spinse la porta, e la porta si aprì. La giornata era luminosa; luminosa di sole e di neve bianca.

Erano le dodici meno cinque. Era mattino. Il suo compleanno era appena cominciato.

Un’automobile lo aspettava nel parcheggio.

Capitolo quattordicesimo

Arthur Saltus uscì, cautamente, nella neve. La base pareva abbandonata; nulla si muoveva per le strade e i vialetti.

Tornò a guardare l’automobile ferma.

Era piccola, e somigliava più al “maggiolino” tedesco che ai modelli americani, ed era di un colore verde-oliva; ma capì che era americana, avvicinandosi, dal nome inciso sui mozzi delle ruote. L’auto era laggiù da prima dell’inizio della nevicata; non c’era alcuna traccia di movimenti passati, di insidie. Uno strato di neve copriva la macchina, e un finestrino era socchiuso, una semplice fessura dalla quale era entrata la neve, che si era sciolta all’interno, inumidendo i sedili.

Saltus si guardò intorno: guardò il parcheggio, il giardino e gli spazi freddi e vuoti che lo circondavano, ma non vide alcun segno di movimento o di vita. Restò immobile, vigile, ascoltando con attenzione, guardando, e fiutando il vento, alla ricerca di qualche segno di vita. Nessuno aveva lasciato delle impronte rivelatrici sulla neve, e non c’erano suoni od odori rivelatori nel vento. Quando ne fu sicuro, Saltus si allontanò dalla porta delle operazioni, chiudendola alle sue spalle, assicurandosi che le serrature avessero scattato. Tenendo alto il fucile, si avvicinò cautamente all’angolo dell’edificio e si affacciò a guardare. La strada era deserta e la neve intatta, come tutti i prati e i viottoli tra le costruzioni, dall’altra parte della strada. I cespugli erano curvi sotto il peso della neve. Il suo piede urtò un oggetto sepolto nella neve, quando fece un passo avanti per abbandonare la protezione dell’angolo.

Abbassò lo sguardo, si chinò, ed estrasse dalla neve un apparecchio radio. Era stato preso dal deposito, in basso.

Saltus lo rigirò tra le mani, cercando di vedere se aveva riportato dei guasti, ma l’apparecchio era intatto; nessun segno indicava che fosse stato colpito da qualche proiettile, e dopo una breve esitazione il comandante immaginò che Moresby doveva averlo lasciato cadere in quel punto per sbarazzarsi del peso superfluo. Saltus ricominciò la sua esplorazione, girando intorno all’edificio, per assicurarsi di essere solo. La neve che rifletteva il chiarore del sole era immacolata. Ne fu sollevato, e si fermò di nuovo per assaggiare il bourbon.

L’automobile richiamò la sua attenzione.

Il cruscotto lo sconcertò; invece che una chiavetta d’accensione c’era un interruttore, con le due posizioni standard, on e off; non c’erano quadranti per fornire le necessarie informazioni sulla quantità di benzina, di olio, sulla temperatura dell’acqua, sulla pressione dei pneumatici, e non c’era neppure un tachimetro. Spinto da un’idea improvvisa ed eccitante, Saltus scese dall’auto e sollevò il cofano. Tre grosse batterie argentate erano allineate, accanto a un motore così semplice e compatto da non apparire in grado di spostare niente, meno che mai un’automobile. Saltus abbassò il cofano, e tornò al volante. Abbassò l’interruttore nella posizione on. Non si udì alcun suono, ma una luce ammiccò sul cruscotto. Saltus spinse con estrema lentezza la leva nella posizione “avanti”, e l’auto, obbediente, avanzò lentissima nella neve, verso la strada deserta. Saltus schiacciò l’acceleratore con crescente soddisfazione, e deliberatamente spinse alla massima velocità la macchina nella strada nevosa. L’auto sbandò in maniera strana, poi ritornò sotto il controllo del pilota, quando Saltus toccò il volante. La piccola automobile era divertente.

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