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Bob Shaw: Sfida al cielo

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Bob Shaw Sfida al cielo

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Un pianeta su cui si è sviluppata una società avventurosa ma arretrata, spinta da una grande sete di conoscenza ma dotata di una tecnologia elementare e proprio per questo ancora più eroica. Un ambiente duro e ostile da cui si può evadere solo fuggendo verso l’ignoto, nello spazio: sono le premesse da cui parte Bob Shaw per costruire un romanzo di avventure i cui protagonisti sono astronauti che volano su navi di legno ed esploratori dell’ignoto disposti a muoversi fra i mondi con poco più di una caravella. In condizioni simili non c’è da stupirsi che i pericoli del viaggio si moltiplichino per mille e le incognite dell’arrivo siano ancora più tremende. Ma cosa ha da perdere chi non ha nulla da perdere? Non è esagerato dire che in questa saga di un futuro “diverso” Shaw sia riuscito a darci tutti gli elementi di un originale racconto epico.

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— Dieci nobili in più all’uomo che farà tacere il prete — disse Leddravohr, riaffermando il suo disgusto per tutti i mercanti di superstizioni e in particolare per quelli troppo codardi per partecipare di persona alla carneficina senza scopo.

Portò la mano all’elmetto e rimosse il cappuccio che aveva, nascosto il pennacchio rosso. I giovani tenenti che comandavano le altre tre coorti avrebbero notato il lampo di colore appena lui fosse uscito dalla foresta. Leddravohr si tenne pronto ad agire mentre il quarto paio di foglie si rizzava e si chiudeva intorno al tronco del brakka, dolce come l’abbraccio di un’amante. La donna legata sulla cima dell’albero rimase improvvisamente immobile, forse svenuta, forse pietrificata dal terrore. Un tangibile, pulsante silenzio scese sulla radura. Leddravohr sapeva che la camera di combustione dell’albero era già in attività, che la mistura di cristalli verdi e rossi era ormai pronta, che l’energia così creata poteva essere trattenuta solo per pochi secondi…

Il rumore dell’esplosione, benché diretta in alto, fu spaventoso. Il tronco del brakka si squarciò e fremette mentre la scarica di polline veniva proiettata verso il cielo, una vaporosa colonna qua e là tinta di sangue, circondata da anelli di fumo.

Leddravohr sentì il terreno sollevarsi sotto di lui per l’onda d’urto che si propagava nella foresta circostante, e subito dopo era in piedi e correva. Assordato dal terrificante boato dello spostamento d’aria, doveva affidarsi solo ai suoi occhi per valutare il grado di sorpresa nell’attacco. A sinistra e a destra poteva vedere i pennacchi arancione degli elmetti di due dei suoi tenenti, con dozzine di soldati che emergevano dagli alberi dietro di loro. Direttamente davanti a lui i Gethani stavano fissando incantati l’albero sacrificale, le cui foglie stavano già cominciando a srotolarsi, ma potevano accorgersi del pericolo da un secondo all’altro. Il principe era ormai a metà strada dalla guardia più vicina, e a meno che l’uomo non si fosse voltato in fretta, sarebbe morto senza nemmeno sapere cosa l’avesse colpito.

L’uomo si voltò. Il viso contorto, la bocca piegata in basso, mentre gridava l’allarme. Battè il piede destro su qualcosa nascosto nell’erba. Leddravohr sapeva che era la versione Gethana di un cannone, un tubo di brakka montato su una rampa bassa utile solo come arma anti-uomo. II piede della guardia aveva fatto a pezzi una capsula di vetro o di ceramica nella culatta attivando la carica di cristalli di energia ma, e questo era il motivo per cui Kolcorron non si curava delle armi di questo genere, prima dello sparo c’era un intervallo inevitabile. Ma per quanto breve fosse, non impedì a Leddravohr di compiere un’azione diversiva.Gridando un avvertimento ai soldati dietro di lui, girò verso destra e arrivò sul Gethano di fianco, proprio mentre il cannone faceva fuoco e scagliava il suo ventaglio di ciottoli e frammenti di roccia a crepitare sull’erba. La guardia era riuscita ad estrarre la spada, ma l’attenzione per il sacrificio l’aveva distratto dai suoi compiti e reso impreparato al combattimento. Leddravohr, senza nemmeno rompere la corsa, calò su di lui con un unico colpo sul collo e si gettò in mezzo alla confusione di figure umane nella radura.

Lo scorrere del tempo normale si fermò per Leddravohr mentre si faceva strada verso il centro dello spiazzo. Era solo vagamente consapevole dei suoni della battaglia, sottolineati dagli spari di un altro cannone. Almeno due dei Gethani che aveva ucciso erano giovani donne, qualcosa di cui i suoi uomini avrebbero potuto lagnarsi più tardi, ma lui aveva visto troppi buoni soldati perdere la vita cercando di fare distinzione tra i sessi durante una battaglia.

Modificare un colpo mortale in uno che stordisse soltanto comportava quell’attimo d’incertezza che poteva ridurre l’efficienza di combattimento, e bastava un batter di ciglia perché una lama nemica trovasse il suo bersaglio.

Alcuni Gethani stavano cercando di fuggire, solo per essere abbattuti o ricacciati indietro dai Kolcorriani che li circondavano. Altri stavano lottando meglio che potevano, ma la loro concentrazione sulla cerimonia era stata fatale e ora scontavano duramente la loro mancanza di vigilanza. Un gruppo di indigeni con i capelli intrecciati e strani tatuaggi sulla pelle si rifugiarono tra i nove alberi di brakka al centro e usarono i tronchi come fortificazioni naturali. Leddravohr vide due dei suoi uomini riportare serie ferite, ma la resistenza dei Gethani fu di breve durata. Intralciati dalla scarsità di spazio, erano un facile bersaglio per i soldati armati di picca della seconda coorte.

Tutto d’un tratto la battaglia finì.

Passata l’ebbrezza del massacro e riacquistata la calma, gli istinti più freddi di Leddravohr si rimisero all’erta. Scrutò i dintorni per essere sicuro di non trovarsi in pericolo personale e che le sole persone ancora in piedi fossero soldati Kolcorriani e donne Gethane catturate, poi alzò lo sguardo al cielo. Prima, nella foresta, lui e i suoi uomini erano stati al sicuro dai ptertha, ma ora erano all’aperto ed esposti a qualche rischio.

Il globo celeste che si presentava al suo sguardo sembrava strano a un nativo di Kolcorron. Lui era cresciuto con l’enorme e nebbiosa sfera di Sopramondo sospesa proprio sopra la testa, ma lì, sulla Penisola di Loongl, il pianeta gemello risultava spostato a ovest. Leddravohr poteva vedere il cielo aperto sopra di lui e questo gli dava una sensazione sgradevole, come se avesse lasciato un fianco scoperto in un piano di battaglia. Non avrebbe visto nessuno spettro luminoso bluastro spostarsi lentamente sullo sfondo disegnato di stelle mattutine, comunque, e decise che era meglio tornare a occuparsi del lavoro che aveva sotto mano.

La scena tutt’intorno gli era abituale, piena di un miscuglio di suoni familiari. Alcuni Kolcorriani si stavano gridando l’un l’altro battute volgari mentre si muovevano intorno ai Gethani feriti che uccidevano subito e raccoglievano trofei della battaglia. Gli indigeni avevano poco che potesse essere considerato di valore, ma le loro bacchette anti-ptertha a forma di “Y” sarebbero state un’interessante curiosità da mostrare nelle taverne di Ro-Atabri. Altri soldati stavano ridendo e schiamazzando mentre spogliavano la dozzina, più o meno, di donne Gethane che erano state prese vive. Era un’attività legittima a quel punto: uomini che avevano combattuto bene avevano diritto ai premi di guerra, e Leddravohr prestò solo l’attenzione sufficiente ad assicurarsi che nessuno fosse passato ad azioni più concrete.

In questo tipo di territorio un contrattacco nemico poteva scatenarsi molto in fretta, e un soldato in calore era una delle creature più inutili dell’universo.

Railo, Nothnalp e Chravell, i tenenti che avevano guidato le altre coorti, si avvicinarono al principe. La pelle dello scudo rotondo di Railo era malamente squarciata, e c’era una fasciatura rossa di sangue sul suo braccio sinistro, ma lui sembrava in forma e di ottimo umore. Nothnalp e Chravell stavano pulendo le loro spade con degli stracci, rimuovendo ogni traccia di sporco dagli intarsi di smalto delle lame nere.

— Un’operazione di successo, se non mi sbaglio — disse Railo, facendo a Leddravohr l’informale saluto da campo.

Leddravohr annuì. — Quante perdite?

— Tre morti e undici feriti. Due dei feriti sono stati colpiti dal cannone. Non vedranno la piccola notte.

— Prenderanno la Strada Luminosa?

Railo sembrava offeso. — Certamente.

— Parlerò con loro prima che vadano — disse Leddravohr. Da buon pragmatista senza credenze religiose dubitava che il suo saluto significasse qualcosa per i soldati morenti, ma era il tipo di gesto che sarebbe stato apprezzato dai loro camerati. Come il suo permettere persino al più basso soldato semplice di parlargli senza le adeguate forme di appellativo, quello era uno dei modi con cui conservava l’affetto e la lealtà delle truppe.

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