Bob Shaw - Cronomoto

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Cronomoto: краткое содержание, описание и аннотация

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È uno dei temi più affascinanti della fantascienza: che cosa accadrebbe se potessimo fisicamente cambiare il tempo, creando nuovi mondi con un semplice gesto? Jack Breton, il protagonista di questo romanzo pieno di suspence e di sorprese, da nove anni non fa che pensare a quei pochi, fondamentali momenti che hanno preceduto la morte di sua moglie. Per correggere il suo errore deve riscrivere il passato. Ma con quali conseguenze?

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— Me ne vado — mentì Jack, in lotta con l’intima certezza che non sarebbe mai riuscito a premere il grilletto. — Ti restituirò poi le valigie. Ho preso anche qualche vestito. Ti secca?

— No. — Gli occhi di John tradivano il sollievo. — Ma allora, vuol dire che resti nella nostra corrente temporale?

— Sì… mi basterà sapere che Kate è viva e vicina.

— Oh! — Sulla faccia quadrata di John Breton si dipinse un’espressione delusa, come se si fosse aspettato di sentire parole diverse. — Parti subito? Vuoi che ti chiami un tassi?

Jack assentì e John alzò le spalle e si voltò per andare al telefono. Una gelida paralisi attanagliava i muscoli di Jack, mentre estraeva la pistola. Si avvicinò all’altro se stesso, e gli calò il calcio sulla testa, proprio dietro l’orecchio. Mentre le ginocchia di John si piegavano, Jack inciampò e gli cadde addosso. Si ritrovò a faccia a faccia con lui. John socchiuse gli occhi ottenebrati dal dolore, e Jack vi lesse l’orrore.

— Ah, è così — mormorò John in un soffio, quasi soddisfatto, come un bambino che sta per addormentarsi. Chiuse gli occhi, ma Jack Breton tornò a colpirlo parecchie volte, coi pugni, singhiozzando mentre cercava di distruggere l’immagine della propria colpa.

Quando tornò in sé, rotolò lontano da John e rimase accosciato accanto al corpo inerte, ansimando pesantemente. Poi si alzò, salì in bagno e si piegò sul lavandino. Il metallo dei rubinetti era fresco contro la sua fronte come quella volta da ragazzo, quando aveva fatto la sua prima disastrosa esperienza con i liquori, ed era corso a piegarsi sul lavandino, lasciando liberare il suo stomaco. Ma questa volta non riuscì a ottenere sollievo così a buon prezzo.

Breton si sciacquò la faccia con l’acqua fredda, si asciugò e dedicò una cura particolare alle nocche spellate. Aprì l’armadietto farmaceutico, e gli cadde lo sguardo su una bottiglietta piena di triangoli color verde chiaro, che avevano l’aspetto generico e inconfondibile delle pastiglie di sonnifero. Breton lesse l’etichetta e ne ebbe la conferma.

Andò in cucina a riempire un bicchier d’acqua e lo portò in anticamera, dove John Breton era ancora steso sul tappeto color mostarda. Gli sollevò la testa e cominciò a infilargli le pastiglie in bocca. Il compito risultò più difficile del previsto. La bocca e la gola di John si riempivano d’acqua, e un involontario colpo di tosse faceva scendere le pastiglie nello stomaco. Jack sudava, e gli ci volle molto più tempo del previsto per far inghiottire otto pastiglie all’altro se stesso.

Infine si alzò, mise da parte la bottiglietta del sonnifero, si cacciò la pistola in tasca, e trascinò il corpo in cucina. Una rapida perquisizione nelle tasche di John, fruttò a Jack un portafoglio provvisto di tutti i documenti che gli sarebbero serviti per il futuro, e un mazzo di chiavi, fra cui quella della Lincoln.

Uscì, salì in macchina, e, innestata la retromarcia, risalì il vialetto posteriore in modo da arrivare col paraurti all’altezza del traliccio del patio, coperto d’edera. Il sole pomeridiano era tiepido, e di lontano, oltre le siepi e gli alberi, si sentiva ancora il ronzio della falciatrice.

John era immobile come un morto, e aveva la faccia pallidissima segnata da un rivoletto di sangue che, dal naso, gli solcava una guancia.

Breton trascinò il corpo fuori e lo caricò nel portabagagli dell’auto. Mentre sistemava le gambe, si accorse che John aveva perso un mocassino. Riabbassò il coperchio del portabagagli senza chiuderlo a chiave, e tornò in cucina. La scarpa era caduta sulla soglia.

Breton la raccolse, e stava tornando alla Lincoln, quando s’imbatté nel tenente Convery.

— Mi spiace di dovervi disturbare di nuovo, John. — Gli occhi azzurri del tenente erano vividi, intenti, e avevano una luce maliziosa. — Ma temo di aver dimenticato qui una cosa.

— Non… non ho trovato niente.

Breton sentiva le parole che gli uscivano di bocca e si meravigliò che il suo corpo fosse capace di dominare la situazione comportandosi normalmente, mentre il suo cervello non si era ancora ripreso dal colpo. Che cosa faceva lì, Convery? Era la seconda volta nello stesso giorno che sbucava all’improvviso nel patio, nel momento meno opportuno.

— È il fossile. Il fossile del mio bambino… non l’avevo, quando sono tornato a casa. — Convery sorrideva ironicamente, come se volesse sfidare Breton a eccitare le sue prerogative, scacciando dalla sua casa un poliziotto ficcanaso. — Non avete idea dei fastidi che ho avuto.

— Non credo che sia qui, altrimenti sono sicuro che l’avrei visto… Non è un oggetto che possa passare inosservato.

— È vero — rispose Convery con indifferenza. — L’avrò lasciato da qualche altra parte.

Breton capiva che non si trattava di una coincidenza. Convery era pericoloso… un poliziotto intelligente e tenace, il tipo peggiore. Un uomo che si lasciava guidare dall’istinto e che restava attaccato tenacemente alle idee, anche contro la logica e l’evidenza. Ecco perché, ogni tanto, era tornato da Breton in quei nove anni: nutriva dei sospetti. Quale scherzo vendicativo del destino, pensò Breton, aveva portato quel superpoliziotto ostinato sulla scena che lui aveva preparato con tanta cura in quella notte di ottobre?

— Avete perso una scarpa, John?

— Una scarpa? — Breton seguì la direzione dello sguardo di Convery e si accorse di avere in mano un mocassino nero. — Oh, sì. Ero distratto.

— Capita, quando si ha qualcos’altro per la testa… Pensate un po’ al mio fossile.

— Io non ho niente altro per la testa — si affrettò a dichiarare Breton. — E voi? C’è qualcosa che vi preoccupa?

Convery si era avvicinato alla Lincoln e vi si era appoggiato, con una mano sul coperchio del portabagagli. — Niente… è che cerco di parlare con le mani.

— Non capisco.

— Non ha importanza. A proposito di mani… vedo che avete le nocche sbucciate. Vi siete picchiato con qualcuno?

— E con chi? — rise Breton. — Non posso certo picchiarmi da solo.

— Pensavo a quel tale che vi ha sistemato la macchina. — Convery batté la mano sul coperchio che vibrò rumorosamente. — Certe volte quegli scimmioni sporchi d’olio trattano i clienti in un modo che vien voglia di pestarli… E questo è uno dei motivi per cui bado sempre da solo alla manutenzione della mia auto.

Breton aveva la gola secca. Dunque, Convery aveva notato che la macchina non c’era, quando era venuto la prima volta — No, no — disse. — Non ho mai litigato con gli operai della stazione di servizio.

— Che cosa stavate facendo? — domandò il poliziotto guardando la Lincoln con l’occhio sdegnoso di chi se ne intende.

— I freni vanno registrati.

— Ah sì? Credevo che su questo tipo di macchine la registrazione dei freni fosse automatica.

— Può darsi che lo sia… non ci ho mai guardato. — Breton cominciava a chiedersi se le cose sarebbero andate ancora per le lunghe. — L’unica cosa che so, è che non frena bene.

— Volete un consiglio? Accertatevi che i bulloni delle ruote siano avvitati bene, prima di muovervi. Ho visto macchine che non frenavano bene, e la colpa era delle ruote male assicurate.

— Sono certo che le mie sono a postissimo.

— Non fidatevi troppo, John… Non c’è nulla come una ruota d’auto che riesca a stare a posto pur non essendo assicurata bene.

Poi, prima che lui facesse in tempo a muoversi, con un rapido scatto Convery girò dietro la macchina, afferrò la maniglia del portabagagli e sollevò il coperchio, voltandosi a guardare Breton con aria trionfante. Poi lo riabbassò di colpo, girando la maniglia in posizione di fermo.

— Visto? Avrebbe potuto aprirsi in corsa, e sarebbe stato pericoloso. Ve l’avevo detto, io: bisogna stare molto attenti.

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