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Robert Silverberg: Il tempo delle metamorfosi

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Velada Borthan è di certo uno dei pianeti più singolari dell’universo, inquietante intreccio di contraddizioni: un clima dolce accanto alle condizioni più aspre, la vita più naturale accanto alla costrizione dei propri sentimenti, una civiltà raffinata accanto alla barbarie morale. Insomma, un inferno o un paradiso a seconda dei punti di vista: e, fatto assurdo, i suoi abitanti avevano scelto deliberatamente l’inferno. Giardino dell’Eden alla rovescia, Velada Borthan era completo anche di tentatore e di frutto proibito: in una società nella quale il peccato supremo consisteva nell’aprire spontaneamente il proprio animo agli altri, il frutto proibito non poteva essere che il mezzo per far diventare della coscienza del singolo la coscienza di tutti. Sarà il Terrestre Schweiz a rivelarlo sconvolgendo un ordine che, per essere stato liberamente scelto, non era per questo meno spietato e inumano. Kinnall Darival, il giovane principe protagonista della vicenda, è l’uomo al quale viene affidato il segreto della droga che conduce alla comunione degli spiriti, spezzando i legami nei quali la sua gente aveva rinchiuso la propria personalità. In un mondo in cui l’affermazione di se stessi era vietata sino al punto da considerare osceno il parlare in prima persona, questa totale apertura personale non poteva essere che la peggiore delle bestemmie. Era però necessario passare attraverso di essa per riscattare Velada Borthan del suo inferno, anche a costo della perdita dell’unico sentimento consentito in una società che aveva fatto dell’insensibilità la massima delle virtù. Nessun vincolo è tuttavia più resistente di quelli imposti dalla morale, per quanto assurda e deviata possa essere: per causa loro si è anche disposti a rinunciare volontariamente al paradiso a portata di mano. Ottenuto premio Nebula in 1971. Nominato per premi Hugo e Locus in 1972.

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Partii all’inizio dell’autunno, dopo una primavera in cui Salla aveva pianto la morte di mio padre e un’estate in cui aveva salutato Eptarca mio fratello. Il raccolto era stato misero, niente di strano per Salla, dove i campi generano sassi e pietre più che raccolti, e la capitale, Città di Salla, era invasa da un nugolo di parassiti che speravano di ricavare qualcosa dal nuovo Eptarca. Una coltre pesante incombeva sulla capitale giorno dopo giorno e su di essa si accumulavano le prime nuvole pesanti dell’autunno che giungevano puntuali dal mare dell’Est. Le strade erano polverose; gli alberi avevano cominciato presto a perdere le foglie, anche le maestose «Spine di Fuoco» che circondavano il palazzo dell’Eptarca; l’odore degli escrementi degli animali delle fattorie prendeva alla gola. Erano tutti cattivi presagi per il regno appena iniziato del nuovo Eptarca: mi sembrò che fosse giunto il momento di partire. Anche Stirron era irritabile e fece rinchiudere nelle segrete molti sfortunati consiglieri di Stato. Io ero ancora ben accetto a corte, vezzeggiato e coccolato, soffocato da manti di pellicce e da promesse di baronie nelle montagne; ma quanto sarebbe durato, quanto? Per il momento, Stirron si sentiva in colpa perché aveva ereditato il trono mentre io non avevo ricevuto nulla, e mi trattava con tutti i riguardi; ma appena quell’arida estate avesse lasciato il posto ad un inverno di carestia, le cose sarebbero cambiate: mi avrebbe invidiato perché ero libero da responsabilità e mi si sarebbe messo contro. Avevo studiato a fondo gli annali delle case reali: era già successo.

Perciò mi preparai a partire rapidamente. Soltanto Noim e Halum conoscevano i miei piani. Presi con me le cose da cui non volevo separarmi, come un anello da cerimonia che mi aveva lasciato mio padre, una giacca da caccia di cuoio giallo che prediligevo, e un amuleto di cammeo che racchiudeva i ritratti di Noim e di Halum; lasciai tutti i miei libri, perché i libri si possono trovare dovunque, ed anche la spada dell’uccello che aveva ucciso mio padre, trofeo del giorno della sua morte, che tenevo appesa nella mia camera da letto a palazzo. A mio nome, depositata presso la Banca Reale di Sana, c’era una notevole somma di denaro, cui misi mano in un modo che credevo accorto. Cominciai col trasferire i fondi in sei diverse e più piccole banche commerciali, nell’arco di più giorni. Questi nuovi conti erano tenuti congiuntamente con Halum e con Noim. Halum procedette quindi ad effettuare dei prelevamenti, chiedendo che il denaro venisse trasferito alla Banca Commerciale e dei Naviganti di Manneran, sul conto di suo padre Segvord Helalam. Se fossimo stati scoperti, Halum avrebbe dovuto dichiarare che suo padre aveva avuto dei rovesci e che aveva chiesto un prestito a lunga scadenza. Una volta che il denaro fu arrivato senza problemi a Manneran, Halum chiese a suo padre di trasferirlo ancora, questa volta su un conto a mio nome alla Banca del Comandamento di Glin. In questo modo tortuoso riuscii a trasferire i miei fondi senza sollevare i sospetti dei nostri funzionari del Tesoro, che avrebbero potuto meravigliarsi del fatto che un principe di Salla portasse il suo patrimonio in una provincia rivale del Nord. L’unico pericolo di tutto il progetto era che, se il Tesoro si fosse accorto del defluire del denaro, avrebbe interrogato Halum, fatto delle indagini sul conto di suo padre e scoperto che in realtà Segvord viveva tranquillamente negli agi e non aveva nessun bisogno del «prestito». Sarebbero sorte delle complicazioni e sarei stato scoperto. Ma le mie manovre passarono inosservate.

Infine, mi recai alla presenza di mio fratello per chiedergli il permesso di lasciare la capitale, come richiedeva l’etichetta di corte.

Era una cosa che mi preoccupava parecchio, perché il mio senso dell’onore mi faceva esitare di fronte alla menzogna, ma d’altra parte non potevo certo rivelare a Stirron la verità. Passai molto tempo con Noim, provando e riprovando le battute che avrei dovuto pronunciare, ma come alunno valevo poco: Noim sputava, imprecava, piangeva, si metteva le mani nei capelli e più d’una volta mi fece confondere con una domanda astuta.

— Non sarai mai un bugiardo — mi diceva disperato.

— No — ammettevo; — proprio non si può essere bugiardi.

Stirron mi ricevette nella sala settentrionale, una stanza tappezzata, scura, severa, dalle pareti di pietra grezza e le finestre piccole e strette, che veniva usata soltanto per le udienze con i capi dei villaggi. Con questo non voleva offendermi, penso; semplicemente si trovava lì quando il messaggero che gli avevo inviato gli aveva riferito che io desideravo incontrarlo. Il pomeriggio era inoltrato, fuori cadeva una pioggerella grigia e insistente, da qualche lontana torre giungeva il suono delle campane che chiamavano a raccolta gli apprendisti, e le note gravi, disordinate in modo assurdo, risuonavano penetranti attraverso le pareti. Stirron era vestito in modo formale: un voluminoso abito grigio di pelliccia di Scudo di Tempesta, aderenti calzoni di lana rossa, alti stivali di cuoio verde. Aveva al fianco la spada del Comandamento, al petto la pesante, scintillante insegna del potere, gli anelli regali tintinnavano alle sue mani e, se la memoria non m’inganna, aveva sull’avambraccio destro un altro contrassegno di potere. Gli mancava soltanto la corona. Negli ultimi tempi avevo visto spesso Stirron così acconciato, alle cerimonie o alle riunioni di Stato, ma trovarlo così carico di insegne regali in un pomeriggio normale mi sembrò piuttosto ridicolo. Era insicuro al punto da doversi bardare in quel modo per convincersi di essere veramente l’Eptarca? Credeva, in quel modo, di impressionare il fratello più giovane? Oppure amava tutti quegli ornamenti e li indossava, come un bambino, soltanto per il piacere d’indossarli? Quale che fosse il motivo, Stirron in quell’occasione si rivelò piuttosto superficiale. Mi stupii del fatto che mi avesse divertito, invece di incutermi timore. Probabilmente la mia ribellione ebbe inizio proprio nel momento in cui giunsi al cospetto di Stirron in tutto il suo splendore e riuscii a stento a soffocare le risa.

Sei mesi di governo avevano lasciato il segno su di lui. Aveva la faccia grigia e la palpebra sinistra abbassata, probabilmente per la stanchezza. Teneva le labbra strette e stava rigido con una spalla più alta dell’altra. Benché ci separassero soltanto due anni, mi sentivo un ragazzo di fronte a lui e mi sembrava impossibile che le preoccupazioni avessero potuto segnare in quel modo il volto di un uomo così giovane. Sembrava che fossero passati secoli da quando Stirron e io ridevamo insieme nelle nostre camere da letto, sussurrando tutte le parole proibite e spogliandoci per confrontare i nostri corpi di adolescenti che cominciavano a maturare. Adesso mio fratello era diventato re e io gli offrivo formale obbedienza, incrociando le braccia sul petto, inginocchiandomi e mormorando a capo chino: — Lunga vita a te, Eptarca, signore.

Mio fratello era abbastanza uomo da accettare il mio omaggio formale con un sorriso fraterno. Accolse l’augurio col gesto tradizionale, certo, le braccia levate e le palme volte all’infuori, ma subito dopo lo mutò in un abbraccio. Attraversò rapidamente la sala e mi strinse a sé. C’era qualcosa di artificioso, vero, nel suo gesto, come se fosse stato lì a pensare un modo per accogliere affettuosamente suo fratello. Mi lasciò andare subito. Scivolò verso la finestra e guardando fuori pronunciò le sue prime parole: — Una giornata bestiale. Un anno orribile.

— La corona è pesante, Eptarca?

— Hai il permesso di chiamare tuo fratello col suo nome.

— Si vede che sei sfinito, Stirron. Forse prendi troppo a cuore i problemi di Salla.

— La gente ha fame — rispose, — ti sembra una cosa da prendere alla leggera?

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