Avevo completamente dimenticato il matrimonio. Se fossi scivolato via da Salla prima che venisse celebrato, avrei ferito mio fratello e questo mi dispiaceva; ma se fossi rimasto, con Stirron in quello stato, non avrei avuto nessuna garanzia di arrivare libero al giorno delle nozze, o addirittura vivo. D’altra parte non c’era alcun senso ad andare a Nord con Noim, se mi proponevo di tornare entro quaranta giorni. Era una scelta difficile: posticipare la mia partenza e correre i rischi dei capricci regali di mio fratello, o partire subito e mancare di parola al mio Eptarca.
Il Comandamento dice che dovremmo accogliere di buon animo i dilemmi, perché addestrano l’animo a risolvere quello che sembra senza soluzione. Ma il dubbio che assillava me era decisamente una presa in giro degli alti insegnamenti morali del Comandamento. Mentre io rimanevo lì, esitante, il telefono di Stirron suonò; egli sollevò il ricevitore, parlò rapidamente, rimase cinque minuti ad ascoltare i suoni inarticolati che venivano dall’apparecchio mentre la sua faccia si faceva sempre più buia e gli occhi gli s’infiammavano di collera. Alla fine interruppe il contatto e mi guardò come se non mi conoscesse. — Hanno cominciato a mangiare i morti a Spoksa — mormorò. — Sulle pendici del Kongoroi danzano in onore dei dèmoni, nella speranza di ottenere del cibo. Follia! Follia! — Strinse i pugni, voltò la faccia verso la finestra, serrò gli occhi e io pensai che si fosse completamente dimenticato di me. Il telefono ricominciò a squillare. Si girò di scatto, come se avesse ricevuto una pugnalata. Si accorse di me, fermo vicino alla porta, come di ghiaccio, agitò le mani impaziente e disse: — Vai, vai, vai col tuo fratello di legame, vai dove vuoi! Questo paese, questa carestia! Padre, padre, padre! Sollevò il telefono. Iniziai la genuflessione di congedo, ma Stirron mi cacciò furiosamente dalla stanza; lasciava che oltrepassassi i confini del suo reame senza che mi fossi impegnato in nessun modo.
Noim ed io partimmo, con pochi servi, tre giorni dopo. Il tempo era cattivo; dopo la siccità dell’estate, l’autunno non aveva portato solo le sue nuvole grigie, gonfie e lugubri, ma anche piogge incessanti, come d’inverno. — Morirete d’umidità prima d’aver raggiunto Glin — disse allegramente Halum, — se pure non affogherete nel fango della Grande Strada di Salla.
La sera prima della nostra partenza rimase con noi, a casa di Noim; passò la notte da sola in una piccola stanza appartata sotto il tetto e ci raggiunse per la colazione, quando ormai eravamo pronti per partire. Non l’avevo mai vista così bella: quella mattina la sua bellezza risplendeva dolcemente nel buio dell’alba piovosa, come una torcia in una caverna. Forse la vedevo ancora più bella perché stava per uscire dalla mia vita, e sapevo che per molto tempo non l’avrei avuta vicina. Pensavo a quel distacco che io stesso avevo voluto, e la vedevo bellissima. Aveva una gonna di delicata maglia d’oro, con sotto semplicemente un leggerissimo velo a nascondere il suo corpo nudo. Muovendosi in quegli abiti evanescenti, le sue forme mi ispiravano pensieri che mi riempivano di vergogna. Halum stava per oltrepassare la giovinezza, era donna da molto tempo e io cominciavo a stupirmi del fatto che non si fosse ancora sposata. Benché lei, Noim ed io avessimo la stessa età, Halum, come tutte le ragazze, era uscita dall’infanzia prima di noi. Aveva cominciato ad avere i seni e le regole mensili un anno prima che a noi cominciasse a crescere la peluria sulle guance e sul corpo, e questo ci aveva dato l’idea che fosse più grande. Anche quando raggiungemmo la piena maturità fisica, Halum continuò ad essere più adulta di noi, modulava la voce più armoniosamente, aveva modi più pacati. Era impossibile scacciare l’idea che fosse la nostra sorella maggiore. Presto avrebbe dovuto accettare un pretendente, prima di andare troppo in là col tempo e di inasprirsi nella sua verginità. All’improvviso ebbi la certezza che Halum si sarebbe sposata mentre io ero lontano, nascosto a Glin, e il pensiero di qualche straniero sudato che si affannava a piantar bambini tra le sue cosce mi disgustò al punto che mi allontanai violentemente dal tavolo e da lei e mi diressi barcollando verso la finestra per prendere una boccata d’aria fresca.
— Non stai bene? — mi chiese Halum.
— Si è un po’ tesi, sorella di legame.
— Non c’è pericolo, l’Eptarca ti ha concesso il permesso di andare verso Nord.
— Non ci sono documenti che lo dimostrino — obiettò Noim.
— Ma tu sei il figlio dell’Eptarca! gridò Halum. — Quale guardia delle strade oserebbe farti delle storie?
— Già — risposi. — Non c’è motivo di avere paura. Ma ci si sente un po’ incerti. Si sta per iniziare una nuova vita, Halum. — Sorrisi forzatamente.
— Dev’essere ora di andare.
— Aspettate ancora un poco — implorò Halum.
Non rimanemmo. I servi ci aspettavano giù nella strada. I carri da terra erano pronti. Halum ci abbracciò, prima Noim e poi me, che ero quello che non sarebbe tornato e al quale dedicò un addio più lungo. Quando mi venne tra le braccia, rimasi colpito dall’intensità con cui mi si offriva: le sue labbra alle mie, il suo ventre al mio, i suoi seni schiacciati contro il mio petto. Sulla punta dei piedi, premeva il suo corpo contro il mio e per un momento la sentii tremare, prima di cominciare a tremare anch’io. Non era il bacio di una sorella e certo non quello di una sorella di legame: era il bacio appassionato di una sposa che manda il suo giovane marito in guerra, senza sapere se tornerà. Ero rimasto folgorato dall’ardore improvviso di Halum. Mi sembrava che fosse stato strappato via un velo, e che una Halum che non conoscevo si fosse gettata su di me, una Halum che ardeva di desiderio carnale e che non si curava di nascondere la sua fame proibita del corpo del proprio fratello di legame. Oppure immaginavo soltanto queste cose, in lei? Mi era sembrato che per un lungo istante Halum si fosse abbandonata completamente, e avesse lasciato che le sue braccia e le sue labbra mi dicessero tutto dei suoi sentimenti. Ma io, io non avevo potuto risponderle nello stesso modo. Mi ero troppo ben allenato a comportarmi correttamente verso la mia sorella di legame, e rimasi freddo e distante mentre l’abbracciavo. Forse la respinsi un poco, sorpreso dal suo ardore. Come ho detto, può essere che quell’ardore esistesse soltanto nella mia mente sovreccitata, e che quello di Halum fosse soltanto legittimo dolore di fronte ad una partenza. In ogni modo, Halum si calmò rapidamente; allentò l’abbraccio e mi lasciò. Era triste e abbattuta, come se io l’avessi respinta duramente, rimanendo così rigido mentre lei mi si offriva in quel modo.
— Vieni, adesso — disse Noim impaziente. Cercando di rimediare, sollevai la mano di Halum e toccai leggermente col palmo il palmo freddo di lei, le sorrisi imbarazzato e lei mi rispose con un sorriso ancora più imbarazzato. Avremmo potuto scambiare qualche parola, se Noim non mi avesse preso per il gomito e non mi avesse cocciutamente spinto fuori ad iniziare quel viaggio che mi portava così lontano dalla mia terra.
Volli assolutamente confessarmi, prima di lasciare Città di Salla. Non era in programma, e Noim non approvava che si perdesse del tempo ma, man mano che ci avvicinavamo ai confini della capitale, cresceva in me un incontenibile desiderio dei conforti della religione.
Eravamo in viaggio più o meno da un’ora. Pioveva a dirotto ed un vento furioso si scatenava contro i parabrezza dei nostri carri da terra: bisognava guidare con prudenza. Le strade sassose erano sdrucciolevoli. Io sedevo, di cattivo umore, vicino a Noim che guidava uno dei carri; l’altro, con i nostri servi, ci seguiva dappresso. Si era di primo mattino e la città dormiva ancora. Era come se fossi in una sala chirurgica: ogni strada che attraversavamo era una parte della mia vita passata che mi veniva strappata via: i cortili del palazzo, le guglie della Casa di Giustizia, i grandi blocchi grigi dell’università, la Casa del Dio dove mio padre mi aveva portato al Comandamento, il Museo dell’Umanità che avevo così spesso visitato con mia madre per ammirare i tesori venuti dalle stelle. Traversando l’elegante zona residenziale che delimita il Canale Skangen gettai un’occhiata alla ricca dimora del Duca di Kongoroi: tra le lenzuola di seta della sua bella figlia avevo lasciato in una pozza viscosa la mia verginità, non molti anni prima. Avevo vìssuto in quella città tutta la vita e forse non l’avrei più rivista: il mio passato veniva lavato via come la terra delle fattorie di Salla sotto le dirotte piogge invernali. Fin da ragazzo avevo saputo che un giorno mio fratello sarebbe diventato Eptarca e che in città non ci sarebbe più stato posto per me, ma non avevo mai voluto ammetterlo. Mi dicevo: — Non accadrà presto, forse non accadrà affatto. — Adesso mio padre giaceva nella sua bara fatta col legno di Spine di Fuoco, mio fratello stava rannicchiato sotto il peso terribile della sua corolla e io fuggivo da Salla per salvare la vita; mi assalì una tale pietà di me stesso che non osai parlarne neppure a Noim, anche se è inutile avere un fratello di legame se non ci si confida con lui. Fu allora, mentre attraversavamo le ultime strade di Città Vecchia di Salla, che vidi una decrepita Casa del Dio e dissi a Noim: — Fermati a quell’angolo. Si vuole entrare a purificare l’anima.
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