Robert Silverberg - Brivido crudele

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Una giovane orfana diciassettenne, vergine, e madre di cento figli. Un astronauta che, su un lontano pianeta, è stato vivisezionato e rimesso insieme, ma con criteri extraterrestri, da dei superchirurghi. Unite queste due vittime di un oltraggio insanabile. Dall’orrore che striscia sotto la loro pelle, pronto a prorompere, scaturiranno torrenti di paura, ira, odio, gelosia, tormento, terrore: le emozioni umane delle quali si nutre e si abbevera, e grazie alle quali ingrassa e si arricchisce, il “mercante di dolore”. L’astronauta, l’orfana e l’avvoltoio: il più strano “triangolo” coniugale che i mondi interplanetari abbiano mai veduto.

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— Anche se potessimo. Un giorno, sì, potrebbero darmi un nuovo corpo. E in che scarpe mi troverei? Avrei perduto quel che sono adesso e non avrei guadagnato niente. Mi perderei. Allo stesso modo, potrebbero darti, forse, un paio di bambini; ma… gli altri novantotto? Quel che è fatto, è fatto. La realtà della tua essenza ti ha assorbita. La mia ha fatto lo stesso con me. Tutto ciò ti riesce troppo oscuro?

— Stai dicendo che dobbiamo prendere di petto, senza scappatoie quel che siamo, Minner.

— Esatto, esatto. Basta scappare. Basta rimuginare. Basta odiare.

— Ma il mondo… la gente normale…

— La questione è semplice: noi contro di loro. Non ci divoreranno. Vogliono metterci nel baraccone dei fenomeni. Dobbiamo reagire, e combattere, Lona!

La macchina si fermò. Ecco l’edificio basso e senza finestre. Entrarono e… sì, il signor Chalk era disposto a riceverli, solo che volessero attendere un poco in una saletta d’ingresso. Attesero. Sedevano l’uno di fianco all’altra, quasi senza guardarsi. Lona teneva in mano il cactus in vaso. Era l’unica cosa che avesse portato via con sé dalla sua stanza. Che si prendessero pure tutto il resto!

Burris disse piano: — Rivolgi verso l’esterno l’angoscia. Non abbiamo altro modo, per combattere.

Apparì Leontes d’Amore. Disse: — Chalk vi aspetta.

Su per i piuoli di cristallo. Verso la figura smisurata, nell’alto trono.

— Lona? Burris? Di nuovo insieme? — chiese Chalk. Rise fragorosamente, picchiandosi la pancia e le cosce, grosse come colonne.

— Hai pranzato bene a nostre spese, vero Chalk? — chiese Burris.

Il riso si spense. Chalk, di colpo, si era tirato su a sedere dritto, teso, attento. Sembrava quasi magro e pronto ad alzare i tacchi.

Lona disse: — È quasi sera, Duncan. Ti abbiamo portato il pranzo.

Erano in piedi, di fronte a lui. Burris le passò un braccio intorno alla vita snella. Le labbra di Chalk si mossero. Non ne uscì alcun suono, e la sua mano si fermò prima di raggiungere il pulsante di allarme sulla scrivania. Le dita grasse e tozze si aprirono a ventaglio. Chalk rimase a guardarle.

— A te — disse Burris. — Con i nostri migliori auguri. Con tutto il nostro amore.

L’emozione reciproca fluì da loro in onde lucenti.

Quel torrente, Chalk non lo poteva sopportare. Si piegava da una parte e dall’altra, sbatacchiato dalla corrente tumultuosa. Un angolo della sua bocca si torse in alto; poi l’altro. Un filo di saliva apparve sul suo mento. La sua testa scattò tre volte. Incrociava e apriva le braccia con movimenti da robot.

Burris stringeva talmente Lona da farle dolere le costole.

Erano fiammelle quelle che crepitavano lungo la scrivania di Chalk? Erano fiumi di elettroni allo stato puro quelli che diventavano visibìli, con verde splendore, davanti ai suoi occhi? Egli si contorceva, incapace di muoversi, mentre essi gli offrivano l’appassionata intensità delle loro anime. Ingoiava e non digeriva. Si gonfiava. Aveva il viso lucido di sudore.

Affonda, balena bianca! Sferza con la tua coda possente e va’ giù!

Retro me, Satanas!

Ecco il fuoco: su, Faust, accendilo.

Buone nuove dal grande Lucifero.

Ora Chalk si mosse. Girò nella sua poltrona, rompendo la stasi, sbattendo a ripetizione sul piano della scrivania le braccia carnose. Era inzuppato del sangue dell’Albatro. Ebbe un fremito, uno scatto, un altro fremito. Il grido che gli uscì dalle labbra era solo un sottile e fioco lamento, emesso da un gozzo spalancato. Ora si irrigidiva, ora era scosso dai ritmi mortali…

Poi si afflosciò.

I globi degli occhi si rovesciarono. Le labbra ricaddero. Le spalle massicce cascarono. Le guance si ammosciarono.

Consummatum est; il conto è chiuso.

Le tre persone erano immote: quelle che avevano scagliato le loro anime, e quella che le aveva ricevute. Una delle tre non si sarebbe mossa mai più.

Burris si riprese per primo. Anche il respirare gli costava uno sforzo. Fu un compito colossale dare forza alle labbra e alla lingua. Egli girò su se stesso, riprendendo coscienza delle proprie membra, e posò le mani su Lona. Lei era di un pallore di morte, impietrita. Quando egli la toccò, parve che le forze le tornassero rapidamente.

— Non possiamo più fermarci qui — disse lui con dolcezza.

Se ne andarono, sentendosi vecchissimi, ma tornando giovani a mano a mano che scendevano i piuoli di cristallo. Ritrovavano la vitalità. Ci sarebbero voluti parecchi giorni prima che si rifornissero pienamente; ma almeno non ci sarebbero state altre sottrazioni.

Uscirono dall’edificio senza che nessuno li fermasse.

Era scesa la notte. L’inverno era finito, e sulla città si stendeva la nebbiolina grigia primaverile. Una lieve vena di gelo indugiava ancora nell’aria; ma non rabbrividirono, né l’uno né l’altra, nel freddo.

— Non c’è posto per noi in questo mondo — disse Burris.

— Cercherà solo di divorarci. Come ha tentato di fare lui.

— Lui, lo abbiamo sconfitto. Ma tutto un mondo… non possiamo.

— Dove andremo?

Burris alzò gli occhi. — Vieni con me a Manipol. Faremo visita ai demoni, senza cerimonie.

— Dici sul serio.

— Sì. Ci vieni?

— Sì.

Si diressero verso la macchina.

— Come ti senti? — le chiese.

— Molto stanca. Così stanca che riesco appena a muovermi. Ma mi sento viva. Più viva, a ogni passo. Per la prima volta, Minner, mi sento realmente viva.

— Anch’io.

— Il tuo corpo, ti fa male?

— Amo il mio corpo — egli disse.

— Nonostante la sofferenza?

— A causa della sofferenza. Dimostra che vivo, che sento. — Si volse verso di lei e le prese il cactus dalle mani. Alla luce stellare, che pioveva attraverso uno spiraglio delle nubi, le spine baluginavano.

Egli staccò dalla pianta un piccolo pezzo e lo premette sulla parte carnosa della mano di Lona. Le spine affondarono. Lei vacillò appena un attimo. Apparvero goccioline minuscole di sangue. Lei tolse a sua volta un pezzetto dalla pianta e glielo premette sulla pelle. Era una pelle impervia, difficile; ma alla fine le spine sottili penetrarono. Egli sorrise nel veder scorrere un po’ di sangue. Si portò alle labbra la mano ferita di Lona.

— Sanguiniamo — disse lei — sentiamo. Viviamo.

— La sofferenza è una grande maestra — disse Burris, e affrettarono il passo.

FINE
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