Robert Silverberg - Brivido crudele

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Una giovane orfana diciassettenne, vergine, e madre di cento figli. Un astronauta che, su un lontano pianeta, è stato vivisezionato e rimesso insieme, ma con criteri extraterrestri, da dei superchirurghi. Unite queste due vittime di un oltraggio insanabile. Dall’orrore che striscia sotto la loro pelle, pronto a prorompere, scaturiranno torrenti di paura, ira, odio, gelosia, tormento, terrore: le emozioni umane delle quali si nutre e si abbevera, e grazie alle quali ingrassa e si arricchisce, il “mercante di dolore”. L’astronauta, l’orfana e l’avvoltoio: il più strano “triangolo” coniugale che i mondi interplanetari abbiano mai veduto.

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Egli aveva cercato di evitarlo. Ora non c’era un modo educato di rifiutare, e ciò avrebbe rinfocolato le gelosie di Lona. L’esile suono dell’oboe chiamò i danzatori sulla pista da ballo. Burris accompagnò la donna, lasciando Lona, dal viso impietrito, con l’anziano capitano d’industria.

La donna era un’ottima ballerina. Pareva leggera come una piuma. Incitava Burris a sforzi demoniaci e la loro coppia si muoveva lungo la periferia della sala come volando. A quella velocità, persino la facoltà di percezione acutissima della sua vista non bastava, ed egli non riusciva a scorgere Lona. La musica lo assordava, il sorriso della donna era troppo luminoso.

— Lei è un ballerino eccellente — gli disse. — C’è in lei una forza… un senso del ritmo…

— Non ero affatto un gran ballerino prima di Manipol.

— Manipol?

— Il pianeta dove io… dove loro…

Lei non ne sapeva niente. Egli era partito dal presupposto che tutti conoscessero la sua storia. Ma forse quella gente ricca non guardava i programmi audiovisivi a sensazione. Non aveva seguito le notizie delle sue sventure. Molto probabilmente lei aveva dato per scontato l’aspetto di Burris, al punto di non chiedersi come mai gli fosse capitato di averlo. Si può esagerare anche col tatto; lei non si interessava a Burris quanto egli aveva creduto.

— Non ha importanza — disse lui.

Mentre facevano un altro giro della pista, egli intravide finalmente Lona: se ne stava andando. L’industriale era rimasto solo e sembrava attonito. Burris si fermò di colpo. La sua compagna lo guardò con aria interrogativa.

— Mi voglia scusare. Forse si sente male.

Non si sentiva male. Faceva solo il muso. La trovò in camera, bocconi sul letto. Quando egli le posò una mano sulla schiena nuda, lei fremette e si scostò. Egli non poté dirle nulla. Dormirono molto staccati, e quando si fece avanti il suo sogno di Manipol, riuscì a soffocare gli urli prima che cominciassero e si alzò a sedere, rigido, fino a quando il terrore non se ne andò.

Nessuno dei due, la mattina, fece parola di quell’episodio.

Andarono in gita, a vedere le curiosità naturali, per mezzo di una speciale motoslitta. Su Titano, il complesso dell’albergo e della base spaziale stava al centro di un altopiano di dimensioni limitate, che terminava al piede di montagne immense. Anche qui c’erano in abbondanza dei picchi che sfidavano l’Everest. Sembrava assurdo che dei corpi celesti così piccoli avessero delle catene montuose così grandi; ma le avevano. Circa centosessanta chilometri a ovest dell’albergo, c’era il ghiacciaio Martinelli, un enorme fiume rampante di ghiaccio che serpeggiava per centinaia di chilometri scendendo dal cuore degli Imalaia locali. Il ghiaccio finiva, nel modo più incredibile, con la Cascata di Ghiaccio, famosa in tutta la Galassia, che chiunque venisse su Titano non poteva fare a meno di andare a vedere, e che Burris e Lona andarono puntualmente a vedere anch’essi.

Per strada videro delle cose che Burris trovò più degne di profonda emozione. Per esempio, le nuvole vorticanti di metano e i ciuffi di ammoniaca ghiacciata che ornavano le montagne brulle, facendole somigliare a quelle che si vedono nei dipinti cinesi dell’epoca Sung. Oppure il lago tenebroso di metano, a mezz’ora di slitta dalla cupola. Nelle sue ceree profondità abitavano i piccoli e tenaci esseri viventi di Titano, animaletti che erano più o meno dei molluschi e degli artropodi, ma piuttosto meno che più. Erano esseri attrezzati per respirare e bere metano. Data la scarsità di vita di qualsiasi tipo in quel sistema solare, Burris trovò affascinante il fatto di vedere quelle rarità nel loro “habitat” originale. Sull’orlo del lago vide ciò di cui si nutrivano: le erbacce Titaniane, piante fibrose e untuose, bianche, capaci di sopportare perfettamente quel clima infernale.

La slitta proseguì verso la Cascata di Ghiaccio.

Ed eccola lì: bianco-azzurra, rilucente nella luce di Saturno, sospesa su un vuoto enorme. I presenti emisero i debiti sospiri e le opportune esclamazioni di ammirazione. Non uscirono dalla slitta, poiché, lì, soffiavano venti selvaggi e non ci si poteva interamente fidare della protezione offerta dagli scafandri contro quella atmosfera corrosiva.

Fecero un giro intorno alla cascata, in modo che poterono ammirare il suo arco scintillante da tre lati diversi. Poi il cicerone diede cattive notizie: — C’è una burrasca in arrivo. Si torna indietro.

La burrasca sopraggiunse assai prima che avessero raggiunto l’accogliente riparo della cupola. Cominciò con la pioggia, una precipitazione di ammoniaca simile a nevischio che tamburellava sul tetto della slitta, e poi nuvole di neve cristallina di ammoniaca, spinte dal vento. La slitta avanzava con difficoltà. Burris non aveva mai visto cadere la neve in un modo così pesante e veloce. Il vento mulinava e la sollevava dal suolo, ammonticchiandola a formare cattedrali e foreste. Sforzando un poco, la motoslitta evitava nuove dune e aggirava a tentoni delle improvvise barriere. I passeggeri, per la maggior parte, sembravano imperturbabili. Emettevano esclamazioni di ammirazione per la bellezza della burrasca. Burris, che ben sapeva quanto fosse vicina la possibilità di rimanere tutti seppelliti, taceva con viso fosco. Forse la morte gli avrebbe recato finalmente la pace; ma finire sepolto vivo non era il tipo di morte che preferiva. Già gli pareva di sentire l’odore acre e inquinato dell’aria che cominciava a mancare, mentre i motori sottoposti a un vano sforzo rimandavano i fumi di scappamento nello scompartimento passeggeri. Immaginazione e niente altro. Cercò di godersi la bellezza della burrasca.

Il fatto di rientrare nel calore e nella sicurezza della cupola fu, comunque, un grande sollievo.

Subito dopo il ritorno, lui e Lona litigarono nuovamente. L’alterco, questa volta, aveva ancor meno fondamento delle precedenti; ma in breve raggiunse un livello di autentico malanimo.

— Minner, non mi hai nemmeno degnata di uno sguardo durante tutta la gita!

— Guardavo il paesaggio. Siamo qui per questo.

— Potevi prendermi la mano. Potevi sorridere.

— Io…

— Sono così noiosa…

Egli era stufo di tirarsi indietro. — Per essere esatti, sì, lo sei! Sei una ragazzina stupida, monotona e ignorante! Con te, tutto è sprecato: tutto! Sei incapace di apprezzare cibi, abiti, sesso, viaggi…

— E tu che cosa sei? Un orribile mostro.

— Siamo in due.

— Io, un mostro — strillò lei. — Da me, non si vede. Se non altro, io, sono un essere umano. Tu, che cosa sei?

E qui Burris l’aggredì.

Le sue dita levigate si chiusero sulla gola di Lona. Lei si difendeva con una gragnuola di pugni e di calci, gli artigliava le guance con le unghie. Ma non riuscendo a graffiargli la pelle si infuriò più che mai. Burris la teneva saldamente, la scrollava, facendole rotolare la testa qua e là, ma lei continuava a colpirlo con le mani e con i piedi. Tutti i sottoprodotti della collera gli fecero irruzione nelle arterie.

Pensò: potrei ucciderla con tutta facilità.

Ma il solo fatto di essersi fermato quel tanto da formulare un pensiero coerente lo calmò. La lasciò andare. Guardò le proprie mani, poi lei. Aveva sul collo dei segni quasi simili alle chiazze riapparse sul viso di Burris. Con un singhiozzo soffocato, lei indietreggiò lontana da lui, senza dir nulla, ma puntando contro di lui la mano tremante.

Burris sentì come una legnata di stanchezza alle ginocchia.

Tutta la sua forza era svanita di colpo. Le sue articolazioni cedettero, ed egli scivolò, quasi dissolvendosi, incapace di sostenersi nemmeno con le mani. Rimase bocconi, chiamandola. Non si era mai sentito così debole, neanche durante la convalescenza dopo ciò che gli avevano fatto su Manipol.

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