Burris guardava fisso quella ragazza.
— È solo carne — disse Lona. — Perché ti affascina talmente?
— Quella lassù è Elisa!
— Ti sbagli, Minner. Non può essere qui. E certamente non lassù in cima.
— Ti dico che è Elisa. I miei occhi sono più acuti dei tuoi. E tu l’hai appena intravista. Le hanno fatto qualcosa al corpo, l’hanno imbottita, in qualche modo; ma so che è Elisa!
— E allora va’ da lei.
Egli rimase impietrito. — Non ho detto che volevo andarci.
— Ma l’hai pensato.
— Ti metti a essere gelosa di una donna nuda su una colonna?
— L’amavi prima ancora di conoscermi.
— Non l’ho mai amata — gridò lui, e sembrò che la bugia fosse scritta sulla sua fronte.
Da mille altoparlanti veniva un peana di lodi per la donna, per il parco, per i visitatori. Tutti i suoni confluivano in un solo frastuono informe. Burris avanzò, più vicino alla colonna. Lona lo seguì. La donna, ora, danzava, gettando indietro i calcagni, saltellando freneticamente. Il suo corpo nudo era rilucente. La carne gonfia tremolava e si scuoteva. Era tutta la carnalità in un solo vaso.
— Non è Elisa — disse bruscamente Burris, e spezzò l’incantesimo.
Si girò con faccia fosca, e si fermò. Tutto intorno a loro, i visitatori della fiera confluivano verso la colonna, diventata il punto focale del parco; ma Lona e Burris non si muovevano. Davano le spalle alla danzatrice, Burris sussultò come se avesse ricevuto un colpo e incrociò le braccia sul petto. Si lasciò cadere su un sedile, a testa bassa.
Questa non era un’affettazione di stanchezza. Lei si accorse che Burris stava male.
— Sono così stanco! — disse egli, con voce velata. Svuotato di forze. Mi sento come se avessi mille anni, Lona!
Avanzando la mano verso di lui. Lona tossì. Del tutto all’improvviso le colarono le lacrime dagli occhi. Si lasciò cadere sul sedile accanto a lui, respirando a fatica.
— Mi sento anch’io così. Esausta.
— Che cosa sta accadendo?
— Forse è colpa di qualcosa che abbiamo respirato in quella corsa? O qualcosa che abbiamo mangiato, Minner?
— No. Guarda le mie mani.
Le sue mani tremavano. I piccoli tentacoli pendevano, molli. Aveva un viso pallido come la cenere.
E lei, era come se avesse fatto di corsa cento chilometri quella sera. O avesse partorito cento bambini.
Questa volta, quando egli propose di rientrare, non litigò.
Lei lo piantò su Titano. Burris non ne fu sorpreso: da giorni e giorni vedeva arrivare la cosa. Fu anzi una specie di sollievo.
Dal Polo Sud in poi, la tensione non aveva fatto che crescere. Non riusciva a scorgerne bene la causa, se non che non fossero fatti l’uno per l’altra. Comunque, era stata una zuffa continua, prima nascosta, poi appena mascherata, poi esplicita, cruda e schietta. E lei se ne andò.
Al Tivoli lunare trascorsero sei giorni, che seguirono tutti lo stesso schema. Alzarsi tardi, colazione abbondante, qualche gita per vedere il panorama lunare, poi al parco dei divertimenti. Questo era così vasto che c’erano sempre nuove cose da scoprire; tuttavia, fin dal terzo giorno, Burris si accorse che ripercorrevano istintivamente i propri passi, e col quinto si sentì definitivamente stufo del Tivoli. Cercava di mostrarsi paziente, poiché era evidente che Lona trovava piacere a star lì. Ma alla fine perdeva la pazienza, e bisticciavano. Ogni lite era peggiore di quella della notte precedente. Talvolta risolvevano il conflitto in amplessi furibondi, talvolta in nottate di musoneria insonne.
E sempre, sia durante, sia subito dopo la lite, sopraggiungeva quella sensazione di spossatezza, quella catastrofica perdita di energia. Burris non aveva mai provato niente di simile. Ed era doppiamente strano che quelle crisi assalissero nello stesso momento anche la ragazza. Non ne fecero parola ad Aoudad e Nikolaides, che scorgevano ogni tanto fra la gente.
Burris sapeva che le loro violente discussioni calcavano un cuneo, sempre più a fondo, tra loro. Nei momenti meno burrascosi, se ne rammaricava, poiché Lona era tenera e buona, ed egli ne apprezzava il calore. Però gli istanti di rabbia gli facevano dimenticare tutto ciò. Lei gli appariva, allora, come vuota, inutile, esasperante: un peso aggiunto a tutti i suoi fardelli, una bambina sciocca e ignorante, odiosa. Tutto questo, egli lo disse a Lona, prima in metafora, poi con nude parole.
Una rottura era inevitabile. Si stavano esaurendo, dando fondo alla loro sostanza vitale, in quelle battaglie. I momenti di amore erano sempre più radi, l’acredine sempre più frequente.
La “mattina” (arbitraria, stabilita secondo l’orario terrestre) del sesto “giorno” (altrettanto arbitrario), Lona disse: — Disdiciamo la camera e proseguiamo subito per Titano.
— Dovremmo fermarci qui altri cinque giorni.
— Davvero lo vorresti?
— Be’… francamente, no.
Nel dir questo, Burris temette di provocare un’altra eruzione di parole rabbiose, ed era ancora troppo di buon’ora per cominciare quella solfa. Invece, niente: per Lona era il mattino dei gesti di sacrificio. Disse: — Credo di esserne stufa, e che tu ne sia stufo non è un segreto per nessuno. Quindi, perché restare. Probabilmente Titano è più allettante.
— Probabilmente.
— E qui siamo stati così cattivi, l’uno con l’altra. Forse un cambiamento di paesaggio gioverà.
Questo sì era probabile. Il primo venuto, con quattro soldi in tasca, poteva concedersi la spesa di un biglietto per Luna Tivoli, e il luogo era pieno di screanzati, di ubriachi e di attaccabrighe. Quel paradiso del “tempo libero” faceva quattrini a spese di una massa di pubblico che non si limitava certo alla classe “manageriale” terrestre. Il pubblico di Titano era assai più selezionato. La sua clientela era composta solo di persone ricche e raffinate, persone per le quali lo spendere in un viaggetto il doppio della paga annuale di un operaio era un nonnulla. Quella gente, almeno, avrebbe avuto la cortesia di trattare Burris come se le sue deformità non esistessero. Gli sposini in viaggio di nozze nell’Antartide, che chiudevano gli occhi su tutto ciò che li disturbava, lo avevano trattato come se fosse semplicemente invisibile. I frequentatori del Tivoli gli avevano riso in faccia e avevano sbeffeggiato la sua diversità. Su Titano, però, le buone maniere innate imponevano una tranquilla indifferenza per il suo aspetto: guardare quell’uomo strano, sorridere, chiacchierare garbatamente, ma non lasciar trapelare mai, mai, né con la parola né col gesto, che lo trovate strano, questa è la buona educazione. Burris riteneva che, fra queste tre specie di crudeltà, preferiva nettamente la terza.
Perciò, bloccato Aoudad nella luce dei fuochi d’artificio, disse: — Ne abbiamo abbastanza di star qui. Ci faccia avere i posti per Titano.
— Ma avete a disposizione…
— …ancora cinque giorni. Be’, ci rinunciamo. Ci tiri fuori di qui e ci spedisca a Titano.
— Vedrò che cosa posso fare — promise Aoudad.
Aoudad aveva veduto i loro litigi. Burris ne era dispiaciuto, per dei motivi che disprezzava. Aoudad e Nikolaides avevano recitato, per loro due, la parte di Cupido, e Burris, in un certo senso, si riteneva in obbligo di agire costantemente da innamorato cotto. Gli pareva, oscuramente, di mancare in qualcosa nei confronti di Aoudad, quando si mostrava ringhioso con Lona. Eppure… Non dovrebbe importarmene una cicca, di venir meno ad Aoudad. Lui non si lagna delle nostre baruffe, non solleva la minima obiezione. Non cerca di far da paciere. Non apre bocca…
Come Burris prevedeva, Aoudad procurò senza alcuna difficoltà i biglietti per Titano. Dove telefonò per informare quella stazione turistica che sarebbero arrivati in anticipo sul previsto. E partirono.
Читать дальше