La nave si inclinò e girò dolcemente su se stessa, e l’amata faccia butterata della Luna apparve.
Burris toccò il braccio di Lona. Lei si mosse, sbatté le palpebre, guardò lui e poi fuori del finestrino. Osservandola, egli si accorse dello stupore che le si stendeva sul viso, nonostante avesse le spalle girate.
Ora si scorgeva una decina di cupole sulla superficie lunare.
— Tivoli! — esclamò lei.
Burris dubitava che una di quelle cupole fosse davvero il parco dei divertimenti. La Luna era infestata di cupole, costruite nel corso dei decenni per motivi svariati, bellici, commerciali o scientifici. Nessuna di quelle corrispondeva all’idea che si faceva del Tivoli. Però si astenne dal contraddirla. Stava imparando.
Il trasporto passeggeri, decelerando, spiralò giù verso il punto di allunaggio.
Le cupole erano una caratteristica di quell’epoca, e molte erano opera di Duncan Chalk. Sulla Terra si preferivano (ma non sempre) le cupole geodesiche a contrafforti. Qui invece, data la gravità minore, si usava in genere il tipo di cupola più semplice, e meno rigido, costruito in un sol pezzo, per soffiatura. L’impero dei piaceri di Chalk era segnato di cupole, da quella della sua vasca da bagno privata alla cupola della Sala Galattica, per proseguire con quelle dell’albergo-rifugio nell’Antartide, del Tivoli, e così via, sempre più lontano nello spazio. L’allunaggio fu morbido.
— Cerchiamo di divertirci, qui, Minner! Ho sempre desiderato di venirci!
— Ci divertiremo — le promise.
Le scintillavano gli occhi. Era una bambina, solo una bambina. Innocente, piena di entusiasmo, semplice… Egli faceva lo spunto delle sue doti. In più, era calda, affettuosa. Lo coccolava, fin troppo. Egli sapeva di non apprezzarla come sarebbe stato giusto. La sua vita era stata così avara di piaceri, che lei non si era stancata delle piccole gioie. Poteva entusiasmarsi apertamente e di tutto cuore di fronte ai parchi di divertimento di Chalk. Era giovane. Ma non era una sciocchina, si diceva Burris, cercando di convincersi; era una ragazza che aveva sofferto, piena di cicatrici quanto lui.
Fu calata la rampa e lei corse giù, fin dentro la cupola di attesa. Egli la seguì, stentando solo un poco a coordinare i movimenti delle gambe.
Lona guardava, rapita, il cannoncino che rinculava e la cartuccia dei fuochi d’artificio che, scivolando da un’apertura della cupola, filava nelle tenebre. Tratteneva il fiato. La cartuccia esplose.
I colori variegarono la notte.
Lì fuori non c’era aria, nulla che facesse da cuscinetto alle particelle di polvere che ricadevano. Ma non ricadevano nemmeno, rimanendo più o meno dov’erano. Il disegno era brillante. Ora usavano gli animali. Strane figure extraterrestri. Accanto a lei, Burris guardava in alto, come tutti.
— Ne hai visto, qualche volta, uno come questo?
Era un animale con dei viticci fibrosi, un collo interminabile, dei piedi piatti e palmati. Un pianeta paludoso doveva averlo partorito.
— Mai.
Una seconda cartuccia filò in alto. Ma era solo quella che cancellava la creatura dal piede palmato, lasciando pulita la nera lavagna celeste per l’immagine successiva.
Un altro sparo.
Un altro.
Un altro.
— È così diverso, qui, dai fuochi d’artificio sulla Terra — disse lei. — Niente scoppio, niente accensione. E tutto rimane lì fermo. Se non lo cancellassero, quanto tempo rimarrebbe, Minner?
— Qualche minuto. Anche qui c’è la forza di gravità. Le particelle ricadrebbero. E i detriti cosmici le scompiglierebbero. Ci sono porcherie di ogni genere che spiovono dallo spazio.
A qualsiasi domanda, aveva una risposta pronta. All’inizio, questa dote l’aveva riempita di reverente ammirazione. Adesso l’irritava. Lei sperava di metterlo in imbarazzo. Ci si provava continuamente, pur sapendo che le sue domande lo seccavano, quasi quanto le risposte di Burris annoiavano lei.
Che bella coppia! Cerchiamo già di tenderci delle trappolette a vicenda. E non siamo nemmeno in luna di miele!
Rimasero per mezz’ora a guardare i fuochi d’artificio silenziosi. Poi lei cominciò a essere irrequieta e si mossero.
— Adesso dove andiamo? — disse lui.
— Giriamo a caso.
Sentiva che Burris era teso e nervoso, pronto a prendersela con lei al primo passo falso. Come doveva essergli odioso di trovarsi in quello stupido parco dei divertimenti! Molti lo guardavano con tanto d’occhi. Guardavano anche lei; ma il suo motivo di curiosità stava in quel che le avevano fatto, non nell’aspetto che aveva, e gli occhi non si fermavano a lungo.
Proseguirono, giù per un passaggio tra i baracconi, e tornando indietro lungo un altro.
Era un luna-park del tipo tradizionale, fedele a un modello centenario. Era cambiata la tecnologia ma non l’essenza. C’erano i giochi di destrezza e le bambolette, gli spacci da pochi soldi che servivano immondezza in piatti, giostre rotanti che avrebbero soddisfatto dei dervisci, baracconi di facili orrori, casini da gioco, oscure sale di proiezione (solo adulti!) nelle quali vengono rivelati i misteri più scadenti della carne, il circo delle pulci e il cane parlante, i bengala, la musica chiassosa, i montanti luminosi: due o tremila ettari di divertimenti stantii, rimpannucciati all’ultima moda. La differenza più notevole fra il Tivoli di Chalk e le migliaia di luna-park del passato stava nella sua collocazione, dentro il vasto cratere di Copernico, verso l’arco est della parete circolare. Qui si respirava aria pura, ma si ballonzolava nella gravità ridotta. Era la Luna.
— Il Vortice? — chiese una voce insinuante. — Signore, signorina, volete il Vortice? — Lona avanzò sorridendo, Burris gettò delle monete sul banchetto, e furono fatti entrare. Una decina di gusci d’alluminio stavano, spalancati, come i resti di cozze gigantesche, a galla su un lago di mercurio. Un individuo tarchiato, a petto nudo e con la pelle color rame, disse: — Un guscio per due? Da questa parte, da questa parte!
Burris la aiutò a entrare in un guscio e sedette accanto a lei. Il coperchio venne serrato. L’interno era buio, caldo, opprimente. C’era spazio appena sufficiente per loro due.
— Auguri per le fantasticherie prenatali — egli disse.
Lei gli prese la mano e la tenne ostinatamente stretta. Attraverso il mercurio del lago venne una scintilla di forza motrice e partirono, sfiorando la superficie dell’ignoto. Quali gallerie nere, quali gole nascoste stavano seguendo? Il guscio dondolava in un vortice. Lona strillava, strillava, strillava.
— Hai paura? — le chiese Burris.
— Non so. Va così veloce!
— Non è possibile che ci facciamo male.
Era come stare a galla, o in volo. Praticamente, senza peso, senza attrito che impedisse il moto sfiorante, mentre scivolavano qua e là, giù per le vie traverse e le cloache. Si aprirono delle valvole invisibili, e un odore filtrò all’interno.
— Che odore senti? — gli chiese Lona.
— Odore di deserto, di caldo. E tu?
— Di boschi in un giorno di pioggia. Foglie fradice, Minner. Come mai?
Forse (pensava) i sensi di Burris non reagiscono come i miei, come quelli degli esseri umani… Come può sentire il deserto, in questo odore intenso di umidità?… A lei pareva di vedere i funghi rossi che sbucavano dal terreno, animaletti multipedi che sgattaiolavano e che affondavano nel terriccio, un bruco luminoso. E lui… Il deserto?
Il guscio parve sbandare, battere in piatto sul mezzo che lo sosteneva, e poi raddrizzarsi. L’odore, quando Lona lo notò di nuovo, era cambiato.
— Adesso sembra di essere al Portico, la sera — disse. — Noccioline, sudore, risate. Che odore avranno mai le risate, Minner? A te che cosa sembra?
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