«Ieri sera, a Roma,» disse il commentatore, «Vornan-19 ha tenuto la sua prima conferenza stampa in diretta. Trenta giornalisti, in rappresentanza dei principali servizi stampa del globo, lo hanno interrogato.»
Improvvisamente, sullo schermo le immagini si dissolsero in un vortice di colori, dal quale uscì il replay della conferenza stampa. Questa volta non si trattava di una simulazione. Vornan, in carne ed ossa, comparve per la prima volta davanti ai miei occhi.
Mi sconvolse.
Non saprei quale altra parola usare. In considerazione dei miei successivi rapporti con lui, mi sia consentito precisare che a quell’epoca lo consideravo soltanto un impostore ingegnoso. Provavo disprezzo per le sue finzioni e per coloro che, qualunque fosse la ragione, stavano al suo sciocco gioco. Tuttavia, la prima occhiata che diedi al presunto visitatore mi fece un effetto del tutto inaspettato. Lui guardava dallo schermo, rilassato e sereno, e l’effetto della sua presenza era più che tridimensionale.
Era un uomo snello, di statura un po’ inferiore alla media, con le spalle strette e spioventi, il collo sottile, femmineo, e la testa splendidamente modellata, fieramente eretta. I piani del volto erano pronunciati: zigomi netti, tempie angolose, mento forte, naso prominente. La testa era un po’ troppo grande per la sua figura: allungata, anzi più lunga che larga, con una struttura ossea che sarebbe apparsa interessante ad un frenologo perché il cranio era curiosamente prolungato e segnato. Ma i lineamenti, per quanto insoliti, rientravano nella gamma di ciò che ci si può aspettare di vedere per le vie di una qualunque metropoli.
I capelli erano corti e grigi. Anche gli occhi erano grigi. Poteva avere un’età qualsiasi, tra i trenta e i sessant’anni. La pelle non aveva rughe. Indossava una tunica celeste che aveva la sobrietà della grande classe, ed alla gola portava annodato un foulard color ciliegia, l’unico tocco di colore. Appariva tranquillo, aggraziato, sveglio, intelligente, affascinante e un po’ sdegnoso. Mi ricordava molto un lucido siamese bluepoint che avevo conosciuto una volta. Possedeva l’ambivalente sessualità di un superbo gattone, perché c’è qualcosa di sinuosamente femmineo anche nei felini più maschi, e Vornan irradiava la stessa qualità, quell’aria ben curata di grazia da pantera. Non voglio dire che fosse asessuato, ma piuttosto che era androgino, bisessuale, capace di trovare e di dare piacere con chiunque e con qualunque cosa. Insisto nell’affermare che quella fu la mia impressione immediata, e non qualcosa che adesso sto proiettando a ritroso, in base a ciò che scoprii in seguito sul conto di Vornan-19.
Il carattere viene definito soprattutto dagli occhi e dalla bocca; ed era là che s’incentrava il potere di Vornan. Le labbra erano sottili, la bocca un po’ troppo larga, i denti impeccabili, il sorriso abbagliante. Faceva balenare quel sorriso come un faro, irradiando un calore ed un interesse immenso, e altrettanto rapidamente l’interrompeva; allora la bocca diventava una nullità, ed il centro dell’attenzione si spostava sugli occhi gelidi, penetranti. Quelli erano i due aspetti più cospicui della personalità di Vornan: la capacità immediata di chiedere e di ottenere amore, rappresentata dal bagliore irresistibile del sorriso; ed il rapido ritrarsi in un distacco altero e calcolato, rappresentato dallo splendore d’opale degli occhi. Ciarlatano o no, era evidentemente un uomo straordinario, e nonostante il mio disprezzo per quel genere di pagliacciate, mi sentivo costretto ad osservarlo in azione. La versione simulata, trasmessa pochi momenti prima, durante l’interrogatorio da parte dei burocrati, aveva avuto gli stessi lineamenti: ma le mancava il potere. La vista del vero Vornan irradiava un magnetismo immediato che mancava allo zombie computerizzato.
La telecamera indugiò su di lui per una trentina di secondi, quanto bastava per registrare la sua bizzarra capacità di calamitare l’attenzione. Poi effettuò una panoramica intorno alla sala, mostrando i giornalisti. Sebbene io fossi sempre stato molto poco interessato agli eroi dei teleschermi, ne riconobbi almeno una mezza dozzina, ed il fatto che Vornan fosse stato riconosciuto meritevole della presenza dei giornalisti più famosi del mondo era di per se stesso importante e testimoniava l’effetto che aveva già esercitato sull’intero pianeta, mentre Jack e Shirley ed io oziavamo nel deserto. La telecamera continuò la panoramica, mostrando tutti i congegni della nostra era tecnologica: gli alimentatori degli apparecchi di registrazione, il muso tozzo dell’ input del computer , la giraffa con i microfoni, la griglia dei sensori di profondità che impedivano alle tre dimensioni della trasmissione di andarsene a spasso, e il piccolo laser al cesio che creava gli effetti d’illuminazione. Di solito, tutti questi apparecchi venivano scrupolosamente nascosti al pubblico, ma per quella registrazione erano stati messi in vista… completavano la scena, si potrebbe dire, per dimostrare che anche noi medievali qualcosa sapevamo fare.
La conferenza stampa ebbe inizio con una voce che, con nitido accento londinese, diceva: «Signor Vornan, vuole avere la gentilezza di precisare le sue affermazioni relative alla sua presenza qui?»
«Certamente. Sono venuto attraverso il tempo per assistere ai processi vitali dell’uomo prototecnologico. Il mio punto di partenza è stato l’anno che voi calcolate come 2999. Intendo visitare i centri della vostra civiltà per essere in grado di farne un completo resoconto, per la gioia e l’istruzione dei miei contemporanei.»
Parlava con calma, e senza esitazioni discernibili. Il suo inglese era privo di accento: era l’inglese che ho sentito parlare dal computer , un linguaggio costruito per mezzo di casti fonemi isolati e perciò immune da ogni contaminazione regionale. La qualità robotica del timbro e dell’enunciazione dava chiaramente l’impressione che quell’uomo parlasse una lingua appresa in vacuo , da una sorta di macchina docente; ma naturalmente un finlandese, un basco o un uzbeco del ventesimo secolo, che avesse imparato l’inglese per mezzo di nastri, avrebbe parlato più o meno allo stesso modo. La voce di Vornan era flessibile e ben modulata, piacevole da ascoltare.
Un giornalista chiese: «Come mai parla inglese?»
«Mi è sembrato che fosse la lingua medievale più utile che potessi imparare.»
«Nei suoi tempi non lo parlano più?»
«Soltanto in una forma fortemente modificata.»
«Ci dica qualcosa del mondo del futuro.»
Vornan sorrise — di nuovo il suo fascino — e disse, pazientemente: «Cosa vorrebbe sapere?»
«La popolazione.»
«Non ne sono sicuro. Parecchi miliardi, a dir poco.»
«Avete raggiunto le stelle?»
«Oh, sì, naturalmente.»
«Quanto vive la gente nel 2999?»
«Finché muore,» disse amabilmente Vornan. «Cioè, fino a quando decide di morire.»
«E se qualcuno non decide di morire?»
«Immagino che continui a vivere. Per la verità, non ne sono ben sicuro.»
«Quali sono le nazioni più potenti del 2999?»
«Non abbiamo nazioni. Abbiamo la Centralità, e poi ci sono gli insediamenti decentrati. È tutto.»
«Cos’è la Centralità?»
«Un’associazione volontaria di cittadini in un’unica area. Una città, in un certo senso, tuttavia è qualcosa di più di una città.»
«Dov’è?»
Vornan-19 aggrottò delicatamente la fronte. «Su uno dei continenti principali. Ho dimenticato i nomi che voi date ai continenti.»
Jack alzò la testa e mi guardò. «Vuoi che spenga? È evidentemente un impostore. Non sa neppure simulare i dettagli in modo convincente.»
«No, lascia,» disse Shirley. Sembrava ipnotizzata. Jack ridivenne teso, ed io mi affrettai a dire: «Sì, guardiamolo ancora un po’. È divertente.»
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