«No, Leo. Anche se bruciassi il manoscritto, io sarei ancora qui. Riuscirei sempre a ricreare a memoria le mie equazioni. Il pericolo sta nel mio cervello. Bruciare quel libro non dimostrerebbe niente.»
«Esistono droghe che cancellano i ricordi…»
Jack rabbrividì. «Non potrei.»
Lo guardai inorridito. Con una sensazione simile a quella di chi precipita in un trabocchetto, per la prima volta scoprii la paranoia di Jack: e l’uomo sano, abbronzato, estroverso degli anni del deserto svanì per sempre. Pensare che si era ridotto così! Tormentato dalla possibilità che un impostore astuto ma implausibile rappresentasse il vero ambasciatore di un lontano futuro, modellato dalla creazione soppressa dello stesso Jack!
«C’è qualche cosa che io possa fare per aiutarti?» gli chiesi sottovoce.
«C’è, Leo. Una cosa.»
«Qualunque cosa.»
«Trova il modo di incontrarti personalmente con Vornan-19. Sei una personalità importante del mondo scientifico. Sei in grado di girare le maniglie giuste. Parla con lui. Scopri se è veramente un impostore.»
«Certo che lo è.»
«Scoprilo, Leo.»
«E se è veramente quel che dice di essere?»
Gli occhi di Jack brillarono con un’intensità sconvolgente. «Interrogalo sulla sua epoca, allora. Inducilo a dirti qualcosa di più su quella faccenda dell’energia atomica. Inducilo a spiegarti quando è stata inventata… da chi. Forse è stata scoperta soltanto di qui a cinquecento anni… una scoperta indipendente, che non ha niente a che fare con il mio lavoro. Strappagli la verità, Leo. Io devo sapere.»
Cosa gli potevo dire?
Potevo dirgli: Jack, sei ammattito? Potevo supplicarlo di farsi curare? Potevo offrirgli una rapida diagnosi dilettantesca di paranoia? Sì, potevo farlo: e avrei perduto per sempre il mio migliore amico. Ma diventare complice della sua psicosi interrogando in quel modo Vornan-19 mi appariva disgustoso. Anche ammettendo che riuscissi ad entrare in contatto con lui, che ci fosse un modo per ottenere un’udienza privata, non me la sentivo di degradarmi trattando quel saltimbanco, sia pure per un momento, come se le sue finzioni dovessero venire prese sul serio.
Potevo mentire a Jack. Potevo inventare una conversazione rassicurante con quell’uomo.
Ma sarebbe stato un tradimento. Gli occhi scuri e tormentati di Jack invocavano un aiuto onesto e sincero. Cercherò di assecondarlo, pensai.
«Farò tutto il possibile,» promisi.
Mi strinse forte la mano. In silenzio, ci incamminammo verso casa.
La mattina dopo, mentre stavo facendo le valige, Shirley entrò in camera mia. Aveva addosso qualcosa di aderente e di perlaceo che esaltava in modo miracoloso i contorni del suo corpo. Io che mi ero abituato alla sua nudità, ricordai di nuovo che era bellissima, e che il mio affetto da vecchio zio includeva un piccolo nucleo di concupiscenza repressa ma insopprimibile.
Lei chiese: «Cosa ti ha detto ieri, là fuori?»
«Tutto.»
«Ti ha parlato del manoscritto? Di quello che gli fa tanta paura?»
«Sì.»
«Puoi aiutarlo, Leo?»
«Non lo so. Lui vuole che affronti l’uomo venuto dal 2999 e controlli se dice la verità. Può darsi che non sia molto facile. E probabilmente non servirebbe a molto neppure se ci riuscissi.»
«È molto turbato, Leo. Sono preoccupata per lui. Sai, in apparenza ha l’aria così sana, eppure questa ossessione ha continuato a bruciare dentro di lui, per anni ed anni. Ha perduto il senso della prospettiva.»
«Hai pensato mai di metterlo nelle mani di uno specialista?»
«Non ne ho il coraggio,» mormorò Shirley. «È l’unica cosa che non posso neppure proporre. È la grande crisi morale della sua vita, ed io sono costretta ad accettarla come tale. Non posso insinuare che si tratta di un’infermità. Non ancora, almeno. Forse, se tu tornerai qui in grado di convincerlo che quell’uomo è un impostore, Jack comincerà a liberarsi della sua ossessione. Sei disposto a farlo?»
«Tutto quello che posso, Shirley.»
All’improvviso me la trovai fra le braccia, il viso premuto tra la guancia e la spalla; i globi dei seni, visibili attraverso la stoffa trasparente si premettero contro il mio petto, e le punte delle sue dita quasi affondarono nella mia schiena. Tremava e singhiozzava. La tenni stretta, fino a quando incominciai a tremare anch’io, per un’altra ragione, e gentilmente la staccai da me. Un’ora dopo, stavo avanzando a sobbalzi sulla strada sterrata, diretto verso Tucson e verso il trasporto che mi aspettava per ricondurmi in California.
Arrivai ad Irvine al cader della notte. Appoggiai il pollice alla lastra della porta, e la mia casa mi lasciò entrare. Isolata da tre settimane e inaccessibile alle variazioni climatiche, aveva odore di chiuso, di tomba. Mi rassicurò la vista del solito caos di carte e di bobine sparse dappertutto. Entrai proprio mentre incominciava a cadere una pioggerella sottile. Vagando da una stanza all’altra, provai quel senso della fine che provavo sempre il giorno dopo il termine dell’estate; ero di nuovo solo, la vacanza si era conclusa, il fulgore dell’Arizona aveva lasciato il posto al buio nebuloso dell’inverno californiano. Non potevo aspettarmi di vedere Shirley che si aggirava per la casa, vivace come un folletto, né Jack che districava qualche sua idea tipicamente involuta per sottoporla al mio esame. Questa volta la mestizia del ritorno era ancora più acuta del solito, perché avevo perduto il Jack forte e solido su cui avevo fatto conto per tanti anni, ed al suo posto era comparso uno sconosciuto sconvolto, pieno di dubbi irrazionali. Persino l’aurea Shirley si era rivelata, non già come una dea, ma come una moglie preoccupata. Ero andato da loro con un male oscuro nell’anima, e ne ero tornato guarito: ma quella visita era costata cara.
Spensi gli opacizzatori e guardai le onde incalzanti del Pacifico, la fascia rossiccia della spiaggia, le spire bianche di nebbia che si insinuavano fra i pini contorti, là dove la sabbia lasciava posto all’ humus. L’odore di chiuso della casa scomparve via via che l’aria odorosa di salmastro e di pini entrava attraverso gli aspiratori. Misi un musicubo nell’apparecchio, e le migliaia di minuscoli altoparlanti incorporati nelle pareti presero a tessere intorno a me una trama di Bach. Mi concessi un sorso di cognac. Per un po’ me ne rimasi seduto tranquillo a sorseggiare il liquore, lasciandomi avvolgere nel bozzolo della musica, e poco a poco mi sentii invadere da un senso di pace. L’indomani mattina mi attendeva un lavoro senza speranza. I miei amici erano angosciati. Il mondo era sconvolto da un culto apocalittico, e adesso era anche assediato da un sedicente emissario delle epoche future. Eppure c’erano sempre stati falsi profeti, gli uomini avevano sempre lottato contro problemi schiaccianti che tormentavano le loro anime, ed i buoni erano sempre stati assillati da dubbi e turbamenti strazianti. Non c’era niente di nuovo. Non provavo pietà per me stesso. Vivi giorno per giorno, pensai, affronta i problemi via via che si presentano, non rimuginare, fai del tuo meglio, e spera in una gloriosa resurrezione. Benissimo. Lascia che venga il domani.
Dopo un po’, mi ricordai di riattivare il telefono. E fu un errore.
Quelli del mio staff sanno che quando sono in Arizona è impossibile comunicare con me. Tutte le telefonate in arrivo vengono dirottate sulla linea della mia segretaria, e lei le sbriga come ritiene opportuno, senza mai consultarmi. Ma se capita qualcosa di veramente importante, lei lo trasmette al registratore del mio telefono di casa, in modo che io ne venga subito informato al rientro. Nell’istante in cui riattivai il telefono, il microregistratore scaricò il suo fardello; il campanello squillò ed io, automaticamente, premetti il pulsante di ricezione. Sullo schermo apparve il viso lungo e ossuto della mia segretaria.
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