«La sto chiamando il cinque gennaio, dottor Garfield. Ci sono state parecchie chiamate per lei, oggi, da parte di un certo Sanford Kralick detto staff della Casa Bianca. Il signor Kralick vuole parlarle urgentemente ed ha molto insistito perché lo mettessi in comunicazione con lei in Arizona. Ha persino sbraitato e minacciato. Quando finalmente sono riuscita fargli capire che lei non voleva assolutamente essere disturbato, mi ha chiesto di dirle di chiamarlo alla Casa Bianca al più presto possibile, a qualunque ora del giorno o della notte. Ha detto che si trattava di una questione d’importanza vitale per la sicurezza della nazione. Il numero è…»
Tutto qui. Io non avevo mai sentito nominare Sanford Kralick, ma naturalmente gli assistenti presidenziali vanno e vengono. Era forse la quarta volta, quella, che la Casa Bianca mi aveva cercato negli ultimi otto anni, da quando era entrato inavvertitamente a far parte della riserva disponibile dei «santoni» scientifici. Una mia biografia pubblicata su una rivista settimanale per lettori scemi mi aveva presentato come un uomo da tener d’occhio, un avventuriero alle frontiere del pensiero, una forza dominante della fisica americana, e da allora ero stato assunto alla gloria di scienziato-divo. Qualche volta venivo pregato di prestare il mio nome a questa o quella dichiarazione ufficiale sulle Finalità Nazionali o sulla Struttura Etica dell’Umanità; ero stato chiamato a Washington per fare da guida a personalità piuttosto tonte del Congresso nel labirinto della teoria delle particelle, quando si discutevano gli stanziamenti per i nuovi acceleratori; ero stato precettato per far da tappezzeria quando a qualche esploratore dello spazio veniva consegnato il Premio Goddard. Quella stupidità aveva contagiato anche l’ambiente accademico, che avrebbe dovuto essere un po’ più smaliziato; di tanto in tanto mi capitava di fare da attrazione a una assemblea annuale dell’AAAS, o di cercare di spiegare ad una delegazione di oceanografi o di archeologi cosa succedeva sulla mia frontiera del pensiero. Ammetto, con una certa esitazione, che avevo finito per gradire queste assurdità, non tanto per la notorietà che mi assicuravano, ma solo perché mi fornivano un virtuoso pretesto per sfuggire al mio lavoro sempre meno soddisfacente. Ricordate la Legge di Garfield: gli scienziati-divi sono di solito uomini personalmente afflitti da una crisi creativa. Poiché hanno smesso di produrre risultati significativi, s’immettono nel circuito delle apparizioni in pubblico e si beano della reverente ammirazione degli ignoranti.
Tuttavia non era mai capitato che una di quelle chiamate da Washington fosse formulata in termini tanto urgenti. «Di importanza vitale per la sicurezza nazionale,» aveva detto Kralick. Davvero? Oppure era uno di quegli washingtoniani per i quali l’iperbole è la lingua madre?
La mia curiosità si era ridestata. Alla capitale era l’ora di cena. Kralick aveva detto di chiamarlo a qualunque ora. Mi augurai di disturbarlo proprio mentre sedeva a tavola davanti ad una suprême de volaille , in qualche assurdo ristorante affacciato sul Potomac. Mi affrettai a fare il numero della Casa Bianca. Sul mio schermo apparve lo stemma presidenziale, ed una spettrale voce computerizzata mi chiese cosa desideravo.
«Vorrei parlare con Sanford Kralick,» dissi io.
«Un momento, prego.»
Ci volle più di un momento. Ci vollero circa tre minuti, mentre il computer cercava il numero lasciato da Kralick, che era fuori ufficio, lo chiamava e lo faceva venire all’apparecchio. Alla fine, lo schermo mi mostrò un giovanotto dall’aria cupa, sorprendentemente brutto, con la faccia a cuneo e certe arcate sopracciliari sporgenti che avrebbero fatto l’orgoglio di un uomo di Neanderthal. Per me fu un sollievo: mi ero aspettato uno di quegli yes-men plastici e smontabili tanto numerosi a Washington. Qualunque cosa fosse Kralick, almeno non era stato coniato con il solito stampo. La sua bruttezza era un elemento a favore.
«Dottor Garfield,» disse immediatamente, «speravo proprio che mi chiamasse! Ha passato una piacevole vacanza?»
«Eccellente.»
«La sua segretaria merita una medaglia per la sua devozione, professore. In pratica l’ho minacciata di chiamare in causa la Guardia Nazionale se non mi avesse messo in comunicazione con lei. Ma ha rifiutato egualmente.»
«Avevo avvertito quelli del mio staff che avrei vivisezionato chiunque si permettesse di violare la mia intimità, signor Kralick. In cosa posso esserle utile?»
«Può venire a Washington domani? Completamente spesato.»
«Di che cosa si tratta, questa volta? Di una conferenza sulle nostre possibilità di sopravvivere fino al ventunesimo secolo?»
Kralick sorrise seccamente. «Non è una conferenza, dottor Garfield. Abbiamo bisogno della sua collaborazione in senso molto speciale. Vorremmo cooptare qualche mese del suo tempo e assegnarle un incarico che nessun altro al mondo potrebbe svolgere.»
«Qualche mese ? Non credo di poter…»
«È indispensabile, signore. Non mi sto limitando a spacciarle le solite chiacchiere. È una faccenda veramente grossa.»
«Posso conoscere qualche particolare?»
«Non per telefono, purtroppo.»
«E lei vorrebbe che accorressi a Washington con un giorno di preavviso per discutere di qualcosa di cui lei non può dirmi niente?»
«Sì. Se preferisce, verrò io in California per discuterne. Ma questo comporterebbe ulteriori ritardi, e abbiamo già perduto tanto tempo che…»
Tesi la mano verso il pulsante che interrompeva la comunicazione, facendo in modo che Kralick se ne accorgesse. «Se non ne ho almeno un’idea, signor Kralick, purtroppo dovrò porre fine a questa conversazione.»
Lui non si lasciò intimidire. «Un solo accenno, allora.»
«Sì?»
«È al corrente del cosiddetto uomo venuto dal futuro che è arrivato qualche settimana fa?»
«Più o meno.»
«Il nostro progetto riguarda proprio lui. Abbiamo bisogno che lei l’interroghi su certe cose. Io…»
Per la seconda volta in tre giorni, ebbi la sensazione di precipitare in un trabocchetto. Pensai a Jack che mi supplicava di parlare con Vornan-19: e adesso il governo mi ordinava di fare la stessa cosa. Il mondo era impazzito.
Interruppi Kralick, precipitosamente: «Sta bene. Domani sarò a Washington.»
Lo schermo del telefono inganna. Sullo schermo Kralick mi era sembrato agile e minuto; di persona era alto circa due metri, e quell’aria d’intellettualità che ne aveva reso interessante la brutta faccia era completamente soffocata dalla sua massiccia presenza. Mi venne a prendere all’aeroporto: arrivai poco prima di mezzogiorno, ora di Washington.
Mentre correvamo sull’autotrack verso la Casa Bianca, Kralick continuò a parlare dell’importanza della mia missione e ad esprimermi riconoscenza per la mia collaborazione. Non fornì dettagli su ciò che voleva da me. Ci inserimmo sulla corsia dell’autotrack che portava in centro e passammo dall’entrata riservata della Casa Bianca. Chissà dove, nelle viscere della terra, venni diligentemente scrutato e riconosciuto accettabile, ed ascendemmo nel venerabile edificio. Mi chiedevo se sarebbe stato il Presidente in persona a fornire le istruzioni. In realtà, non ebbi mai occasione di vederlo. Venni introdotto nella Segreteria, assurdamente zeppa di apparecchi di comunicazione. In una capsula di cristallo sul tavolo principale c’era un esemplare zoologico venusiano, un plasmoide violaceo che protendeva instancabilmente i suoi pseudopodi da ameba in una passabile imitazione di vita. Un’iscrizione alla base della capsula spiegava che era stato trovato durante la seconda spedizione. Rimasi sorpreso; non avevo immaginato che ne avessimo scoperti tanti da poterci permettere di lasciarli come fermacarte nei covi degli alti burocrati.
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