Quando riprese conoscenza dovette stringere i denti per non urlare di nuovo. Si mise a sedere gemendo: la gamba gli faceva vedere le stelle. Tutt’intorno a lui rumoreggiava la battaglia, ma egli si trovava in un angolo morto. Accanto a lui giaceva il corpo del gigante che per poco non l’aveva ucciso, grosso come un tronco d’albero. Il suo cranio, che sembrava abbastanza robusto da reggere a colpi di maglio, aveva una rientranza nella regione occipitale.
Intorno al colossale cadavere strisciava carponi un ferito. Burton, scorgendolo, dimenticò per un attimo il dolore che provava. Quell’uomo così orrendamente straziato era Hermann Goering.
Entrambi erano risorti nello stesso punto. Non c’era tempo per pensare alle implicazioni di tale coincidenza: il dolore cominciava a tornargli, e inoltre Goering cercava di parlare.
Non sembrava però che gli rimanesse molto da dire, o molto tempo per dirlo. Era coperto di sangue. L’occhio destro non c’era più. Uno squarcio correva da un angolo della bocca all’orecchio. Una mano era spappolata. Una costola sbucava dalla pelle. In che modo riuscisse a trascinarsi, o anche solo a restare in vita, andava oltre la comprensione di Burton.
— Tu… tu! — disse Goering in tedesco, con voce roca; poi crollò. Un getto di sangue gli uscì dalla bocca spruzzando le gambe di Burton, e l’occhio rimasto si fece vitreo.
Burton si chiese se avrebbe mai saputo cos’avesse voluto dire Goering. Non che la cosa importasse davvero: ora aveva problemi molto più importanti cui pensare.
A nove metri circa di distanza c’erano due giganti che gli voltavano la schiena. Stavano ansando pesantemente tutt’e due, come se si fossero concessi un attimo di sosta prima di riprendere il combattimento. Poi uno parlò.
Non c’era alcun dubbio. Il gigante non stava emettendo dei semplici suoni inarticolati, bensì delle parole.
Burton non le capiva, ma fu sicuro che si trattasse di linguaggio. A conferma della sua convinzione udì la risposta dell’altro gigante, modulata in chiare sillabe.
Allora quei titani non erano qualcosa come scimmie preistoriche, ma dei pre-umani. Dovevano essere sconosciuti alla scienza terrestre del ventesimo secolo, poiché Frigate gli aveva descritto tutti i fossili noti fino al 2008.
Burton giaceva con la schiena appoggiata alle enormi costole del gigante caduto. Si liberò il viso dai lunghi e rossastri capelli sudaticci del morto, e cercò di vincere il disgusto, e il tremendo dolore che sentiva al piede e ai muscoli strappati. Se avesse fatto troppo rumore avrebbe attirato l’attenzione di quei due, che si sarebbero affrettati a dargli il colpo di grazia. E quand’anche? Con simili ferite, e in mezzo a tali mostri, che probabilità aveva di sopravvivere?
E ancor più doloroso dell’atroce sofferenza fisica era il pensiero di aver raggiunto la meta al suo primo viaggio su quello che chiamava il Direttissimo del Suicidio.
C’era una probabilità su dieci milioni di arrivare lì, e non l’avrebbe colta neanche annegando diecimila volte. Aveva avuto un colpo di fortuna veramente straordinario, che forse non gli sarebbe più capitato. E ora questa fortuna stava per sfuggirgli, e molto in fretta per di più.
Il sole, sempre visibile solo per metà, si andava spostando lungo la cima delle montagne. Quello era il luogo di cui egli aveva ipotizzato l’esistenza, e l’aveva raggiunto al primo colpo. Ma ora, accorgendosi che la vista gli si appannava e il dolore diminuiva, capì che stava morendo. La causa non era certo il piede fracassato: doveva avere un’emorragia interna.
Cercò ancora di rialzarsi. Voleva mettersi in piedi, anche su una gamba sola, e agitare il pugno verso le Parche beffarde e maledirle. Voleva morire con una maledizione sulle labbra.
L’ala rosea dell’alba gli sfiorava gli occhi.
Si alzò in piedi, sapendo che le sue ferite erano scomparse e che era di nuovo tutto intero, e tuttavia dubitandone un po’. Accanto a lui c’erano un graal e una fila di sei salviette accuratamente piegate, di diverso formato, colore e spessore, piegate strettamente e ammucchiate una sull’altra.
A quattro metri circa di distanza un altro uomo, anch’egli nudo, si stava alzando dalla bassa erba d’un verde brillante. Burton si sentì accapponare la pelle. I capelli biondicci, il volto largo, gli occhi d’un azzurro pallido, erano quelli di Hermann Goering.
Il tedesco sembrò altrettanto stupefatto. — Qui c’è qualcosa che proprio non va — disse lentamente, come se si fosse appena destato da un sonno profondo.
— Sì, qualcosa di poco chiaro — rispose Burton. Intorno al meccanismo della resurrezione non sapeva gran che. Non ne aveva mai vista una, però conosceva la descrizione data da quelli che vi avevano assistito. All’alba, appena il sole sbucava da dietro la cima delle invalicabili montagne, un luccichio appariva nell’aria, accanto a una pietra-fungo. In un batter di ciglio l’immagine evanescente diveniva materia e sull’erba accanto all’argine spuntava dal nulla il corpo nudo di un uomo, o di una donna, o di un bambino. Accanto al «lazzaro» risorto c’erano sempre l’indispensabile graal e le salviette.
Si poteva ragionevolmente supporre che la valle del Fiume fosse lunga dai quindici ai trenta milioni di chilometri, che vi abitassero dai trentacinque ai trentasei miliardi di persone, e che ogni giorno ne morisse un milione. Vero che non c’erano malattie, tranne quelle mentali, ma detto milione rappresentava il numero probabile (benché non ci fossero statistiche) di persone morte ogni ventiquattr’ore nelle miriadi di guerre che scoppiavano tra l’uno e l’altro del milione e più di staterelli, oppure uccise in delitti passionali, o suicidate, o giustiziate, o perite in incidenti. C’era insomma un intenso e continuo andirivieni attraverso la cosiddetta «piccola resurrezione».
Ma Burton non aveva mai sentito che due morissero nello stesso momento e nello stesso luogo e risorgessero insieme. Il meccanismo di scelta della zona in cui il morto sarebbe risorto di nuovo era casuale, o almeno così egli aveva sempre ritenuto.
Naturalmente un caso simile poteva pure capitare, quantunque ci fosse una probabilità su venti milioni. Ma se la cosa si ripeteva due volte, una di seguito all’altra, allora si trattava di un miracolo.
Burton non credeva nei miracoli. Nulla accade che non si possa spiegare in base alle leggi della fisica, purché si conoscano tutti i dati.
Egli non li conosceva, per cui per il momento non si preoccupava per la «coincidenza». Era più urgente la soluzione di un altro problema: che fare, con Goering?
Il tedesco conosceva la sua identità e poteva indicarlo a un Etico che fosse stato alla sua ricerca.
Burton guardò rapido intorno, e vide un gruppetto di uomini e donne che si avvicinavano con aria amichevole. C’era tempo per dire soltanto due parole al tedesco.
— Goering, posso uccidere te o me. Nessuna delle due cose mi va, almeno per ora. Per me sei un pericolo, e il perché lo sai. Non dovrei correre rischi con te, iena infida. Però c’è qualcos’altro in te, qualcosa che mi sfugge. E…
Goering, noto per le sue capacità di recupero, parve essersi ripreso. Sorrise con aria astuta e disse: — Ti ho in pugno, eh?
Nel vedere il ringhio di Burton, si affrettò ad alzare una mano aggiungendo: — Ma ti giuro che non rivelerò a nessuno la tua identità. E non farò nulla che ti possa nuocere. Forse non siamo amici; ma almeno ci conosciamo, e ora siamo in terra straniera. È bello avere accanto una faccia nota. Lo so, ho sofferto troppo di malinconia e di solitudine spirituale: pensavo che sarei diventato matto. Questa è una delle ragioni per cui mi sono dato alla narcogomma. Ma credimi, non ti tradirò.
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