Il fegato di Gengis Mao soffre di problemi cronici. Per sostenere la vita del Presidente e la vita della selva di organi artificiali e trapiantati che il suo corpo ospita, ogni giorno vanno versati nel suo sistema litri di medicamenti, e anche il fegato più forte avrebbe difficoltà a gestire l’assalto costante di sostanze chimiche ad alta intensità che è necessario rimuovere dalla circolazione sanguigna di Gengis Mao. Se non bastasse, la presenza di così tanti organi di origine estranea scatena all’interno del corpo dei fenomeni di interazione biochimica che è compito del fegato contrastare, e la tensione dà segni evidenti. Il fegato assediato del Presidente è in un perpetuo stato di morbosità, aggravato dall’età avanzata e dall’intricatezza innaturale della sua composita struttura interna, e dev’essere sostituito periodicamente. Ancora una volta, il momento è venuto.
Due massicci aiutanti sollevano la figura piccola e magra di Gengis Mao e l’accomodano su un lettino: ha inizio il viaggio familiare dalla camera da letto al tavolo operatorio. Il Khan è allegro, nonostante il suo aspetto febbricitante e debole e gli occhi lucidi; rivolge agli aiutanti cenni e strizzate d’occhio, dicendo loro che è comodo; ridacchia, azzarda perfino qualche battuta. Mordecai è stupefatto, come ogni volta, dall’incredibile calma del Khan in un momento del genere, calma dimostrata anche dai dati telemetrici che raggiungono i suoi sensori interni. Gengis Mao sa indubbiamente che per lui ci sono probabilità significative di morire nel corso dell’operazione, ma i suoi segnali somatici non ne indicano nessuna consapevolezza evidente: come se lo spirito del Presidente fosse così perfettamente bilanciato tra l’amore per la vita e la sete di morte da fluttuare in un perfetto equilibrio metabolico. In ogni caso Shadrach è molto meno rilassato del suo datore di lavoro, forse perché considera i rischi di un trapianto di organi come tutt’altro che irrilevanti e non è assolutamente pronto ad affrontare le incertezze personali di un mondo post-Gengis Mao.
Il lettino che trasporta il Presidente scivola su silenziose scanalature pneumatiche, dalla camera imperiale allo studio imperiale; di là nello studio di Shadrach Mordecai, passando per la sala da pranzo privata; infine, dopo un’eternità di sospettose rilevazioni da parte dei dispositivi di sicurezza, valica Interfaccia Cinque e fa ingresso nella Sala di Chirurgia. Questa è un maestoso tetraedro che si estende per i due piani più alti della Gran Torre del Khan, e sottende una trentina di gradi d’arco lungo la superficie esterna dell’edificio dalla slanciata forma conica. Una concrezione cruciforme di strutture cromate la inonda dall’alto di una luce vivida ma non abbagliante. Una piattaforma a metà altezza tra pavimento e soffitto sbuca dalla parete opposta all’interfaccia, dividendo l’ampio locale quasi a metà lungo quel lato, e sopra questa piattaforma è in attesa l’impressionante bolla trasparente asettica dentro la quale si effettuano le operazioni chirurgiche; sotto la piattaforma che sostiene la bolla c’è l’apparato di sostegno ambientale dell’area chirurgica: un grande, sinistro cubo di metallo grigioverde, provvisto di una copertura. Mordecai lo immagina popolato da pompe, filtri, condotti di riscaldamento, serbatoi di sostanze chimiche per la sterilizzazione, umidificatori e altre apparecchiature. All’altro lato della stanza c’è uno ziggurat di ulteriori macchinari, che si ergono gradino sopra gradino, in banchi bene ordinati verdi e blu, per circa trenta metri: un generatore dall’aria goffa, color rosso mattone, in fondo; poi, salendo, un ammasso di congegni per la rilevazione, un’autoclave, un banco laser, la consolle dell’anestesista, una dolly collegata ai monitor che permetteranno ai medici aggiunti di seguire gli eventi dell’interno alla bolla, e molto altro materiale, parte del quale costituisce un mistero assoluto per Mordecai.
Non è necessario che conosca le varie funzioni di tutte queste apparecchiature. Non eseguirà personalmente operazioni chirurgiche. Il suo ruolo qui è quello di far parte dell’equipaggiamento ausiliario: con la sua capacità di seguire, valutare, e aggiornare gli altri sui cambiamenti fisiologici che momento dopo momento hanno luogo nel corpo di Gengis Mao, è una sorta di supercomputer, ben più agile e sensibile di qualunque macchinario medico. Anche le apparecchiature tradizionali, naturalmente, terranno sotto controllo lo stato del Presidente (la ridondanza è la nostra via maestra…); ma Shadrach, in piedi al fianco di Warhaftig e sottoposto al flusso continuo di bollettini in diretta dall’interno del Khan, sarà in grado di interpretare e consigliare con una saggezza intuitiva e deduttiva che nessuna macchina potrebbe cercare di emulare. Non si sente né lusingato né insultato da questa sua funzione di supercomputer: si tratta semplicemente di ciò per cui è lì.
Il lettino arriva all’area di chirurgia e si ferma a fianco del tavolo operatorio. I bracci automatici del tavolo, tentacolare acciaio scintillante, si estendono telescopicamente e avvolgono Gengis Mao, lo sollevano, operano il trasferimento; il lettino si allontana. Mordecai, Warhaftig, e i due assistenti di Warhaftig, tutti perfettamente sterilizzati e avvolti in camici, entrano nella bolla asettica; viene sigillata dietro di loro e non si riaprirà fino al termine dell’operazione. Ora c’è un sibilo sottile, l’atmosfera della bolla viene risucchiata e un ambiente chirurgicamente pulito la sostituisce.
Gengis Mao, supino ma ancora cosciente e di buon umore, lancia sguardi vivaci e intensi in tutte le direzioni, osservando con attenzione ciascuna fase dei preparativi. Gli assistenti denudano il torso piccolo e rigido del Presidente — Gengis Mao ha una struttura leggera ma muscolosa, con poco grasso sottocutaneo e peli radi; le cicatrici sottili di innumerevoli operazioni si intrecciano sul giallo bronzeo della sua pelle — e cominciano il laborioso processo di collegamento dei terminali dei rilevatori. Warhaftig palpa con cura l’addome del Khan e regola l’angolo di incisione del laser chirurgico. L’anestesista, dal suo posto all’esterno della bolla, dispone alcune combinazioni preliminari di agopuntura dalla sua tastiera. — Colleghi la perfusione — borbotta assente Warhaftig a Shadrach Mordecai, che è contento di avere qualcosa da fare.
Poiché Gengis Mao si troverà privo di fegato per quattro, cinque, sei ore, un fegato artificiale è necessario per sostenerlo durante l’operazione. Nessun fegato interamente artificiale, però, è ancora stato messo a punto, nemmeno ora, dopo più di cinquant’anni di tecnologia del trapianto. Il goffo congegno cubico che Warhaftig utilizza è un composto meccanico-organico; tubazioni, condotti, pompe e filtri elettrodialitici mantengono il sangue del paziente adeguatamente puro, ma le funzioni biochimiche fondamentali del fegato, finora impossibili da replicare meccanicamente, sono svolte dal fegato di un cane, immerso in una vasca di fluido caldo all’interno dell’apparato. Mordecai con destrezza fa entrare due aghi nel braccio di Gengis Mao, uno a inserirsi in una vena, l’altro in un’arteria. L’arteria sembra opporre una certa resistenza e Shadrach esita per un istante. Il Presidente strizza l’occhio. È roba a cui è abituato. — Vada avanti — mormora. — Sto perfettamente.
Mordecai completa il collegamento e fa un cenno a un assistente. In breve tempo il sangue del Presidente è in viaggio verso i filtri a spirale: di lì va in perfusione attraverso i lobi rossi, umidi, del fegato canino, per tornare infine al corpo del Presidente. Shadrach mantiene sotto attento controllo le rilevazioni teletrasmesse delle condizioni di Gengis Mao; bene, bene, tutto va bene.
— Immunosoppressori — ordina Warhaftig.
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