Marion Bradley - La torre proibita

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Darkover è un pianeta gelido e ostile, illuminato da un fioco sole rosso-sangue, su cui hanno fatto naufragio, agli inizi del volo interstellare, alcuni coloni terrestri. Col passare degli anni gli abitanti di Darkover hanno imparato a usare le “pietre matrici” per sviluppare i loro poteri psi, e sul pianeta si è formata una cultura di tipo feudale basata sull’uso delle matrici. Queste pietre, tenute in torri austere e isolate, sono oggetto di un rituale mistico: solo le Custodi, donne che hanno fatto voto di castità, hanno il diritto di adoperarle. Contrapposta alla cultura dei “clan” di Darkover, si trova la civiltà dei terrestri, i quali, dopo vari millenni, hanno riscoperto il pianeta, e vorrebbero portare ai suoi abitanti risorse tecnologiche e armi più moderne. Ma i fanatici guardiani che proteggono la verginità delle Custodi vigilano affinché il pianeta del sole rosso non cada sotto l’influenza dei materialistici terrestri.
La torre proibita è la storia di due uomini e due donne che hanno osato sfidare il potere dei guardiani e la tradizione delle Torri.
Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 1978.

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Poi venivano una lunga fila di animali da soma, i servitori in sella alle bestie dalle grandi corna ramificate che sulle strade di montagna avevano il passo più sicuro di molti cavalli e alla retroguardia cinque o sei Guardie col compito di proteggerli dai pericoli. Callista era pallida e quasi incorporea nel nero mantello da viaggio. Guardando il suo volto scavato sotto il cappuccio scuro, era difficile riconoscere in lei la ragazza che rideva tra i fiori dorati. Era accaduto soltanto il giorno prima?

Eppure, nonostante la luttuosa solennità delle vesti scure e il volto esangue, era ancora la donna che aveva accolto e ricambiato i suoi baci con passione inaspettata. Un giorno — presto, presto, si ripromise — l’avrebbe liberata, l’avrebbe avuta sempre con sé. Quando la guardò, lei alzò il volto con un debole sorriso.

Il viaggio richiese quattro giorni, freddi e faticosi. Il secondo giorno, Ellemir salì sulla lettiga e non rimontò a cavallo fino a poco prima di raggiungere le porte della città. Al valico che si affacciava su Thendara, volle lasciare la lettiga.

— Scuote me e il piccino molto peggio dell’andatura di Shirina — insistette, stizzita. — E non voglio entrare a Thendara come una regina viziata o un’invalida. Devono sapere tutti che mio figlio non è debole! — Ferrika, interpellata, disse che era importante che Ellemir si sentisse a suo agio: e se si sentiva in grado di cavalcare, poteva e doveva farlo.

Andrew non aveva mai visto Castel Comyn se non da lontano, dal settore terrestre. Spiccava alto sulla città, immenso e antico, e Callista gli disse che esisteva fin da prima delle epoche del caos e non era stato costruito da mani umane. Le pietre erano state collocate al loro posto dai cerchi delle matrici delle Torri, che avevano collaborato per trasformare insieme le energie.

All’interno era un labirinto, con lunghi ed enormi corridoi; e le stanze in cui furono accompagnati — gli appartamenti, spiegò Callista, riservati da tempo immemorabile agli Alton nella stagione del Consiglio — erano spaziose quanto quelle che loro occupavano ad Armida.

A parte le stanze degli Alton, il castello sembrava deserto. — Ma il nobile Hastur è qui — disse Callista a Andrew. — Rimane a Thendara quasi tutto l’anno, e suo figlio Danvan aiuta a comandare le Guardie. Immagino che convocheranno il Consiglio per decidere sull’eredità degli Alton. Ci sono sempre problemi, e Valdir è così giovane.

Quando portarono Dom Esteban nella sala principale degli appartamenti degli Alton, gli andò incontro un ragazzetto snello sui dodici anni, con la carnagione olivastra, il volto intelligente e i capelli così scuri da non sembrare neppure rossi.

— Valdir. — Dom Esteban tese le braccia, e il ragazzo s’inginocchiò ai suoi piedi.

— Sei così giovane, figlio mio, ma dovrai comportarti da adulto! — Quando il ragazzo si alzò, lui lo strinse a sé. — Dimmi: sai dov’è tuo fratello… — Non finì la frase. Il giovane Valdir rispose a bassa voce: — Riposa nella cappella, padre, vegliato dal suo scudiero. Non sapevo cosa dovevo fare, ma… — Fece un gesto, e Dezi, esitando, entrò nella sala. — Mio fratello Dezi mi è stato di grande aiuto, da quando sono arrivato da Nevarsin.

Damon pensò, spietatamente, che Dezi non aveva perso tempo, adesso che il suo protettore era morto, a insinuarsi nelle grazie del nuovo erede. Accanto all’esile e bruno Valdir, Dezi, con i capelli di un rosso vivo e il volto lentigginoso, aveva l’aria di membro della famiglia assai più del figlio legittimo. Dom Esteban abbracciò Dezi piangendo.

— Mio caro, caro ragazzo…

Damon si chiese come poteva privare il vecchio del conforto dell’unico altro figlio vivente, privare Valdir dell’unico fratello. Il detto era vero: le spalle di chi non ha un fratello sono indifese. E del resto Dezi, senza la matrice, era innocuo.

Valdir andò ad abbracciare Ellemir. — Vedo che finalmente hai sposato Damon. Lo immaginavo. — Ma davanti a Callista esitò, intimidito. Callista tese le mani, spiegando a Andrew: — Sono andata alla Torre quando Valdir era ancora piccolo; da allora l’ho visto solo poche volte, e non l’ho più incontrato da quando è cresciuto. Sono sicura che ti sei dimenticato di me, fratello.

— No — disse il ragazzo, alzando il volto verso la sorella. — Mi sembra di ricordare qualcosa. Eravamo in una sala con tanti colori, come un arcobaleno. Dovevo essere molto piccolo. Sono caduto e mi sono fatto male a un ginocchio, e tu mi hai preso in braccio e hai cantato per me. Portavi un abito bianco con qualcosa di azzurro.

Callista sorrise. — Ora ricordo. È stato quando ti hanno presentato nella Camera di Cristallo, come dev’essere presentato ogni figlio dei Comyn, per accertare che non abbia difetti o deformità nascoste, quando in seguito viene promesso in matrimonio. Allora io ero soltanto un controllore psi. Ma tu non avevi ancora cinque anni: mi sorprende che rammenti il velo azzurro. Questo è mio marito, Andrew.

Il ragazzo s’inchinò cerimoniosamente, ma non porse la mano a Andrew e si ritirò al fianco di Dezi. Andrew s’inchinò freddamente a Dezi; Damon l’abbracciò com’era doveroso tra parenti, sperando che quel contatto disperdesse i sospetti di cui non riusciva a liberarsi. Ma Dezi era saldamente barricato, e lui non poteva leggere nella sua mente. Poi Damon si disse che doveva essere più giusto. Nel loro ultimo incontro aveva torturato Dezi, per poco non l’aveva ucciso: come poteva, lui, accoglierlo con spirito d’amicizia?

Dom Esteban venne portato nelle sue stanze. Guardò Dezi con aria implorante, e il giovane lo seguì. Quando furono usciti, Andrew disse con una smorfia: — Bene, speravo che ci fossimo sbarazzati di lui. Ma se la sua presenza serve a consolare nostro padre, cosa possiamo fare?

Damon pensò che non sarebbe stata la prima volta che un figlio bastardo, dopo una giovinezza riprovevole, diventava il sostegno di un padre che aveva perso gli altri figli. Per il bene di Dom Esteban e per quello di Dezi, si augurò che fosse davvero così.

Raggiunse Andrew e Callista, e disse: — Volete venire con me nella cappella, a vedere come hanno sistemato Domenic? Se è tutto a posto, possiamo risparmiare questo dolore a nostro padre; e Ferrika ha già fatto mettere a letto Ellemir. Lei conosceva Domenic meglio di tutti: è inutile tormentarla ancora.

La cappella si trovava nelle viscere di Castel Comyn: era scavata nella viva roccia della montagna. Vi regnava il freddo delle grotte sotterranee. Nel silenzio echeggiante, Domenic giaceva su una lunga bara sostenuta da cavalietti, davanti alla statua della beata Cassilda, Madre dei Dominii. Nella figura di pietra, Andrew credette di scorgere una vaga somiglianza col volto di Callista e col volto esangue del giovane defunto.

Damon piegò la testa e nascose la faccia tra le mani. Callista si chinò e baciò dolcemente la gelida fronte, mormorando qualcosa che Andrew non udì. Una forma scura, inginocchiata accanto alla bara, si mosse e si alzò. Era un giovane robusto, non molto alto, spettinato e con le palpebre arrossate da un lungo pianto. Andrew immaginò chi era, prima ancora che Callista tendesse la mani.

— Cathal, caro cugino.

Il giovane li fissò dolorosamente per un attimo, prima di ritrovare la voce. — Dama Ellemir, miei signori…

— Non sono Ellemir ma Callista, cugino — disse lei, a bassa voce. — Ti siamo grati perché sei rimasto con Domenic fino al nostro arrivo. È giusto che abbia vicino qualcuno che l’amava.

— È quello che ho pensato, eppure mi sento colpevole: sono stato io a ucciderlo… — La voce si spezzò. Damon abbracciò il giovane, che tremava.

— Sappiamo tutti che è stata una disgrazia, parente. Dimmi com’è accaduto.

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