Marion Bradley - La spada di Aldones

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La spada di Aldones: краткое содержание, описание и аннотация

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Aldones è uno degli dei di Darkover, uno dei Signori della luce. Il romanzo prosegue le vicende narrate in Ritorno a Darkover e Il Signore di Storn. La storia inizia con il figlio di Kennard Alton richiamato su Darkover dal Reggente. Sul Pianeta del Sole Rosso ha inizio la lotta contro i terrestri e alcuni nobili vogliono usare il potere di Sharra, la dea del fuoco, il cui culto è proibito, per sconfiggerli. Il giovane, figlio di un darkovano e di una terrestre, si trova così diviso fra due fazioni e avventurandosi in una delle Torri, deve confrontarsi con il potere di Sharra, cercando l'aiuto di un dio a lei superiore: Aldones.
Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 1963.

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Nessun terrestre può capire veramente quel concetto, ma cercai di spiegarglielo.

«È una sorta di dispositivo meccanico che riesce a entrare in contatto con una mente come se fosse un telepatico, ma che trasmette immagini terrorizzanti. La persona che la usa può controllare la mente e le emozioni della persona colpita. I Ridenow sono dei sensitivi: le atmosfere mentali anomale li colpiscono fisicamente. L'atmosfera della sala era talmente disturbata da mettere in corto circuito le loro reti nervose cerebrali. Sono morti di emorragia al cervello.»

Era una spiegazione estremamente semplificata, ma Lawton parve capirla.

«Sì, ho sentito parlare di cose del genere», disse, con amarezza. Poi, senza che me lo aspettassi, mi rivolse un inchino.

«Grazie della collaborazione», terminò. «Dovremo discutere di varie altre cose, quando ti riprenderai.»

Rafe Scott rimase anche dopo che gli altri se ne furono andati.

«Senti, vorrei parlare con te a quattr'occhi, Lew», mi disse, e fissò con ira Regis.

Regis rispose con rabbia e disprezzo: «Via di qui, sporco terrestre mezza-casta!»

Così dicendo, appoggiò la mano contro la schiena di Rafie e gli diede uno spintone: una cosa assai più offensiva di un pugno.

Rafe si girò verso di lui e lo colpì.

Regis rispose con un pugno sul mento. Il ragazzo terrestre abbassò la testa e si gettò su di lui; tutt'e due cominciarono a muoversi avanti e indietro, strattonandosi e cercando furiosamente di colpirsi.

Io, dimenticato da tutt'e due, non potei fare altro che guardarli, anche se, in un certo senso, sentivo che quella lotta riguardava me, come se le due parti di me stesso avessero deciso di affrontarsi: la parte darkovana e quella terrestre. Rafe, che un tempo era come un fratello; Regis, il mio migliore amico tra i Comyn. Tutt'e due erano come una parte di me, e io, attraverso di loro, combattevo contro me stesso.

La lotta si interruppe bruscamente quando Andrés afferrò per la collottola i due contendenti e li portò di peso fuori della stanza.

«Se volete fare a pugni», ringhiò, «andate a farlo in corridoio!»

Mi giunsero ancora i rumori di una breve zuffa, poi la voce di Regis, chiara e sprezzante.

«Dovermi sporcare le mani in questo modo!» diceva il giovane Hastur.

In qualche modo, dato che il loro litigio mi riguardava, quelle parole assunsero per me un grande significato, come se costituissero una risposta al mio dissidio interiore, e cominciai a fare piani per l'immediato futuro. Anch'io, come Regis, mi sarei “sporcato le mani”, a dispetto di tutti!

Dopo qualche tempo fece il suo rientro Andrés, che, con il suo ininterrotto brontolio, ebbe su a me un effetto calmante. Mi controllò con delicatezza la ferita sulla nuca, che ormai s'era quasi rimarginata, ignorò le imprecazioni con cui gli assicurai di essere in grado di badare a me stesso, sorrise quando lo insultai.

Alla fine io scoppiai a ridere — anche se la cosa mi faceva male alla testa — e gli lasciai fare quello che voleva. Mi lavò la faccia come se fossi un bambino e, se non gliel'avessi proibito, mi avrebbe imboccato con il cucchiaio; come ultima attenzione mi passò un pacchetto di sigarette di contrabbando, proveniente dalla Zona Terrestre. Tuttavia, quando lo ebbi convinto a lasciarmi, non potei che tornare alle mie cupe riflessioni.

Il tempo aveva lenito, almeno un poco, il dolore per la perdita di Marjorie. La morte di mio padre, per quanto rimpiangessi la sua mancanza, era più una perdita per i Comyn che per me. Eravamo stati molto vicini, soprattutto verso la fine, ma io continuavo a odiarlo perché mi aveva fatto nascere mezza-casta. Anche se sentivo la mancanza di mio padre, la sua scomparsa mi aveva permesso di venire a patti con i miei pari. L'assassinio di Marjus era un incubo, ma tutto era accaduto così in fretta da non sembrare reale.

Invece, il dolore della morte di Linnell non mi avrebbe mai lasciato. E la sofferenza che provavo per la sua perdita era pari a quella che mi davano i miei nervi.

Che cosa aveva ucciso Linnell? Nessuno l'aveva toccata, tranne Kathie. E, diversamente da Diane, non era una sensitiva.

Poi capii.

Ero stato io a uccidere Linnell.

Per tutta la sera, intuitivamente, Linnell aveva cercato il contatto con il suo duplicato. Il loro istinto era stato migliore della mia scienza. Io — maledetto imbecille — avevo messo una barriera che le aveva tenute lontane. Quando si era scatenato l'orrore di Sharra, Linnell aveva istintivamente cercato il contatto con il suo doppio. Come avevo detto a Marjus? Un solo corpo non poteva resistere a quella matrice…

Inoltre, Kathie era chiaramente in contatto con me — come avevo visto poco prima — a causa delle barriere con cui l'avevo protetta; ma la deviazione da me inserita nel cervello di Kathie aveva messo anche Linnell in contatto con me… e, tramite me, con la matrice manovrata da Kadarin. Anni prima, infatti, Sharra aveva preso possesso di una parte del mio cervello. E la forza scorre sempre verso il polo più debole. Si era scaricata su Linnell, che era priva di protezione, e aveva sovraccaricato i suoi giovani nervi.

Si era spenta come un fiammifero bruciato.

Era davvero successo un finimondo tra i Comyn. Linnell, i Ridenow, Derik, Diana. Feci una smorfia. Le difese che avevo dato a Diana le avevano evitato di finire come i fratelli. E dopo la sua malvagità…

Poi, la verità mi colpì come una luce accecante. Non c'era un solo briciolo di malvagità in Diana. A suo modo, quel diavoletto perverso mi aveva voluto avvertire…

Un sottile raggio di luna mi illuminava la faccia; nell'ombra vidi muoversi le tende, sentii un passo e una voce che sussurrava: «Stavi dormendo, Lew?»

Alla luce del raggio vidi un luccichio di capelli argentei; un attimo dopo, Diana era sopra di me, simile a un fantasma. Poi si avvicinò alla finestra e aprì le tende per lasciar entrare la luce della luna.

Quella luce gelida fu come una fresca carezza per le mie guance roventi. Non trovai parole per interrogare Diana. Pensai addirittura, senza curiosità, che forse mi ero addormentato e che la stavo sognando. Nonostante l'oscurità, vidi che aveva ancora la faccia rossa dove l'avevo colpita, e mormorai: «Mi dispiace di averti dato quello schiaffo…»

Lei si limitò a sorridere, leggermente stupita. Quando si chinò su di me, la sua voce era irreale come la luce che la illuminava.

«Lew, la tua faccia brucia…» disse.

«E la tua è così fresca…» risposi io. Con la mano buona, le accarezzai il punto dove l'avevo colpita. Diana era molto seria, immobile, e mi fece pensare a Callina. Non la Guardiana distaccata dal mondo, ma la donna orgogliosa e appassionata che aveva sfidato il Consiglio, e che davanti ad Ashara si era rifiutata di entrare in contatto con la mia mente.

Anche Diana si era rifiutata di farlo. Che nessuna donna riuscisse a sopportare quel legame, più profondo di qualsiasi contatto fisico? Callina era lontana, intoccabile, ma Diana era stata per me tutto quello che una donna può essere per un uomo. Ma perché pensavo a Callina, adesso che accanto a me c'era Diana? Pareva che fosse la sua presenza a mettermi nella mente quell'immagine. La stessa faccia di Diana pareva tremare e divenire simile a quella di Callina, tanto da farmi nuovamente chiedere se non fosse un sogno.

«Perché sei venuta?» le chiesi.

Con grande semplicità, lei mi rispose: «Perché, quando soffri o sei in pena, lo so sempre».

Mi prese la mano e se la appoggiò sul cuore. Io chiusi gli occhi e non parlai più. Il suo corpo era tiepido e fresco allo stesso tempo, e anche il suo profumo mi era familiare: sapeva del sale delle lacrime e del miele dei suoi capelli.

«Non andare via.»

«No, mai più.»

«Ti amo», le sussurrai. «Ti amo.»

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