Non avevano ricognitori per proteggersi in coda. L’ Australia non aveva ricognitori davanti alla prua. Le porte stagne si bloccarono all’interno della Norway , segmentandola in diverse sezioni. La gravità cresceva, mentre il sincronizzatore del cilindro calcolava le possibili manovre. Attraverso il comunicatore arrivò la richiesta frenetica d’uno dei loro ricognitori, che voleva istruzioni. Signy non rispose.
La Porta dell’Infinito incombeva sul video, e loro stavano ancora accelerando a tutta forza. I segnali d’avvicinamento lampeggiavano. L’ Australia era la nave più grande, quella che correva il maggior rischio.
Gli schermi e le spie luminose. Stavano sparando contro di loro.
PELL: MOLO AZZURRO; EUROPE ; ore 2400 pg.; ore 1200 ag.
— No. — Mazian era in piedi al suo posto, con una mano premuta sull’auricolare mentre il ponte di comando era nel caos. — Restate dove siete, aspettate prima di prendere a bordo le truppe. Avvertitele che il molo azzurro ha una falla. Raccogliete tutti i militari sul molo verde, di qualunque nave siano. Passo.
Arrivarono i segnali di ricevuto. Pell era nel caos, un intero molo era in avaria, l’aria risucchiata attraverso i cavi, mentre la pressione scendeva. C’erano sagome galleggianti tra l’ Europe e l’ India , militari che si erano trovati sul ponte, ed erano stati risucchiati nel vuoto quando un accesso di due metri per due s’era strappato dagli ormeggi senza preavviso. Nel molo c’era il vuoto, che aveva risucchiato ogni cosa. I portelli stagni delle navi s’erano chiusi automaticamente nell’istante in cui era iniziata la decompressione, isolando anche quelli che erano più vicini alla salvezza.
— Keu — ordinò Mazian. — Rapporto.
— Ho dato gli ordini necessari — rispose una voce imperturbabile. — Tutte le truppe presenti su Pell si stanno dirigendo verso il settore verde.
— Al più presto… Porey, Porey, è ancora in ascolto?
— Qui Porey. Passo.
— Trasmetta gli ordini: distruggere la base della Porta dell’Infinito e giustiziare tutti gli operai.
— Sì, signore — disse Porey, con voce vibrante di collera. — Fatto.
Mallory , pensò Mazian, un nome che era diventato una maledizione, un’oscenità.
Gli ordini non erano stati ancora diffusi, i piani non erano ancora ben delineati. Ormai dovevano presumere il peggio e agire di conseguenza. Mettere fuori uso i comandi della stazione. Portare via le truppe e andarsene… ne avevano bisogno. Dovevano distruggere tutto ciò che poteva essere utile.
Sol. La Terra. Era necessario farlo subito.
E la Mallory… se avessero potuto mettere le mani su di lei…
CENTRALE DI PELL; ore 2400 pg.; ore 1200 ag.
Jon Lukas distolse lo sguardo dallo spettacolo di devastazione sugli schermi per puntarlo sul caos dei pannelli di controllo. I tecnici si agitavano freneticamente per trasmettere richieste all’accertamento danni e alla sicurezza.
— Signore — gli chiese qualcuno — signore, ci sono truppe bloccate nel settore azzurro, un compartimento isolato. Vogliono sapere se possiamo raggiungerli. Vogliono sapere quanto ci vorrà.
Jon Lukas restò immobile, come paralizzato. Non sapeva cosa dire. Le istruzioni non arrivavano più. C’erano soltanto le guardie, che gli stavano sempre intorno; anche Hale e i suoi compagni erano sempre con lui, giorno e notte, ed erano il suo costante incubo personale.
Adesso tenevano i fucili puntati sui tecnici. Lukas si voltò, guardò Hale per pregarlo di usare il comunicatore del casco e mettersi in contatto con la Flotta per chiedere informazioni… se quello era un attacco, un’avaria, e che cosa avesse indotto una nave della Flotta a staccarsi precipitosamente dalla stazione, con altre tre in coda.
All’improvviso Hale e i suoi uomini si fermarono tutti nello stesso istante, ascoltando qualcosa che soltanto loro potevano sentire. E poi si voltarono, puntando i fucili.
— No! — urlò Jon.
Spararono.
PORTA DELL’INFINITO, BASE PRINCIPALE; ore 2400 pg.; ore 1200 ag.; NOTTE LOCALE
C’erano poche occasioni per dormire. Ed ora uomini e hisa ne approfittavano, i primi raggomitolati nella cupola Q e gli altri fuori, nel fango, riposando a turno, con gli abiti addosso, nelle stesse coperte sporche di fango, per quel poco tempo che veniva loro concesso. I mulini non si fermavano mai, e il lavoro continuava di giorno e di notte.
Le fragili porte della camera di compensazione sbatterono una dopo l’altra, ed Emilio rimase immobile, irrigidito, trovando la conferma dei propri timori nel suono che l’aveva svegliato. Non era ora di alzarsi, sicuramente. Sembrava che fossero passati solo pochi minuti da quando s’era sdraiato per dormire. Sentiva il picchiettare della pioggia sulla cupola, e lo scricchiolio degli stivali, fuori sulla ghiaia. Non era una navetta che stava scendendo, ma svegliavano tutti e due i turni solo quando c’era da caricare.
— In piedi, e tutti fuori — gridò un militare.
Emilio si mosse. Sentì gemere, intorno a sé. Gli altri uomini si svegliarono, rabbrividendo nella luce violenta che li investiva. Scese dalla branda, fece una smorfia perché gli dolevano i muscoli e cercò di infilare i piedi piagati negli stivali induriti dall’acqua. La paura cominciava a farsi sentire: piccole cose che non andavano… era diverso dalle altre volte che li avevano svegliati di notte. Mise la giacca, e si tastò la gola cercando la maschera del respiratore. La luce lo investì di nuovo in pieno volto suscitando un coro di lamenti. Si avviò verso la porta e uscì con gli altri salendo i gradini di legno che conducevano al sentiero. Altre luci abbaglianti. Alzò le braccia per ripararsi gli occhi.
— Konstantin. Chiami gli indigeni.
Emilio cercò di vedere al di là delle luci, con gli occhi che lacrimavano… al secondo tentativo distinse alcune ombre, altri che erano stati condotti lì dai mulini. Senza dubbio stava scendendo una navetta. Doveva essere così. Non c’era bisogno di allarmarsi.
— Chiami gli indigeni.
— Tutti voi, fuori — gridò qualcuno dall’interno della cupola; le porte si aprirono facendo diminuire la pressione nella cupola, mentre gli altri venivano spinti fuori sotto la minaccia delle armi.
Una mano minuta, infantile, lo sfiorò. Emilio abbassò gli occhi. Era Freccia. Gli indigeni s’erano svegliati. Tutti gli altri hisa s’erano radunati, sconvolti dalle luci e dalle voci concitate che li chiamavano.
— Sono tutti fuori? — chiese un militare a un altro. — Sì, tutti — rispose quello.
Il tono era sospetto, malaugurante. I dettagli divennero stranamente nitidi, come in quell’attimo che sembra dilatarsi all’infinito quando si precipita da una grande altezza; il tempo che si espandeva… la pioggia e i fari, il luccichio dell’acqua sulle corazze… li vide muoversi… alzare i fucili…
— Addosso! — urlò, e si avventò contro la fila. Un proiettile gli colpì una gamba. Urtò la canna, deviandola, e afferrò le braccia corazzate. Scaraventò l’uomo a terra, gli strappò la maschera mentre quello mulinava i pugni e lo colpiva sul capo. Molti fucili spararono; intorno a lui molti caddero. Raccolse una manciata di fango, l’arma della Porta dell’Infinito, la lanciò contro la visiera di un casco, nella presa del respiratore, e cercò di afferrare una gola, mentre le grida e le urla degli indigeni echeggiavano sotto la pioggia.
Uno sparo gli sibilò sopra la testa e l’uomo con cui stava lottando smise di dibattersi. Emilio si buttò nel fango per prendere il fucile, e rotolò via, stringendolo; alzò gli occhi e vide un’arma puntata contro la sua faccia; premette il grilletto, senza prendere la mira, e il militare barcollò, colpito da qualcun altro, urlando di dolore. Sparavano alle spalle, vicino alle cupole. Emilio sparava contro tutte le armature che vedeva, tra le urla degli indigeni.
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