Gene Wolfe - L'artiglio del Conciliatore

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L'artiglio del Conciliatore: краткое содержание, описание и аннотация

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Il ciclo del “Libro del Nuovo Sole” di Gene Wolfe è ambientato in un futuro estremamente remoto, su una Terra trasformata in modi misteriosi e meravigliosi, e in un tempo in cui la cultura attuale non è nemmeno un lontano ricordo.
Nel primo romanzo della serie avevamo fatto la conoscenza di Severian, il giovane torturatore mandato in esilio per essersi innamorato di una delle sue vittime e aver disobbedito alle ferree regole della corporazione cui apparteneva. Entrato per caso in possesso dell’Artiglio del Conciliatore, una gemma dai poteri miracolosi appartenuta a una leggendaria figura di proporzioni mitiche, Severian continua il suo viaggio verso Thrax, la città del suo esilio, in compagnia della sua spada Terminus Est. Molte sono le meraviglie che l’attendono sul suo cammino: creature scimmiesche dotate di intelligenza umana e di corpi pelosi e lucenti; un bizzarro rituale cannibalesco che gli riporterà le memorie e i pensieri della sua amata e scomparsa Thecla; la stanza delle superfici specchianti in cui svanirà Jonas, il suo compagno strano e non del tutto mortale.
Evocativo, profondo, ipnotico nella sua lirica potenza, L’artiglio del conciliatore si rivela un vero capolavoro di grandiosa e raffinata maestria letteraria.
Vincitore del premio Nebula per il miglior romanzo in 1981.
Vincitore del premio Locus per il miglior romanzo fantasy in 1982.
Nominato per i premi Hugo e World Fantasy in 1982. 

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— No, non può. La Cumana è molto vecchia, ma la città finì molte ere prima della sua nascita e lei è circondata solo dal suo tempo, che la sua mente conosce per esperienza diretta. Per far rinascere la città ci occorre una mente che abbia vissuto in quell’epoca.

— Ed esiste qualcuno tanto vecchio?

La Cumana scosse la testa. — No. Eppure una mente simile esiste. Guarda là, figlia, sopra le nuvole. Quella stella rossa è detta la Bocca del Pesce, e sul suo unico mondo ancora vivente dimora una mente antica e pronta. Merryn, prendimi una mano e tu, Hildegrin, prendi l’altra. Torturatore, stringi la destra della tua amica ammalata e quella di Hildegrin. La tua amata prenda invece l’altra mano della malata e quella di Merryn… Adesso siamo uniti, gli uomini da una parte e le donne dall’altra.

— E ci conviene fare in fretta — borbottò Hildegrin. — Credo che stia per arrivare un temporale.

— Faremo più in fretta possibile. Adesso mi servono tutte le vostre menti, anche se quella della malata mi sarà di scarso aiuto. Mi sentirete controllare i vostri pensieri. Fate quello che vi dirò.

Lasciando per un istante la mano di Merryn, la vecchia donna (se era una donna) si frugò nel corpetto e ne tolse un’asta le cui estremità scomparivano nella notte come se raggiungessero i confini del mio campo visivo, anche se in realtà non doveva essere più lunga di un piccolo pugnale. Aprì la bocca e io credetti che volesse stringere l’asta fra i denti: invece la ingoiò. Dopo un momento vidi la sua sagoma luminosa, sfumata di cremisi, apparire sotto la pelle molle della gola.

— Chiudete gli occhi… tutti… Qui c’è una donna che non conosco, una donna alta, incatenata… non ha importanza, torturatore, adesso ho capito. Non lasciare la mia mano… Nessuno di voi deve staccarsi.

Nella particolare condizione in cui ero caduto dopo il banchetto di Vodalus, avevo sperimentato che cosa significasse dividere la mente con un altro. Ma quella notte non fu la stessa cosa. La Cumana non mi apparve come l’avevo conosciuta, e nemmeno come una versione ringiovanita di se stessa, né come altro… o per lo meno così mi sembrò. Mi accorsi, piuttosto, che il mio pensiero era avvolto dal suo, come un pesce immerso in una vaschetta nuota in una bolla d’acqua invisibile. Thecla era insieme a me, ma non riuscivo a vederla completamente: era come se fosse in piedi alle mie spalle, e vidi la sua mano posarsi su di me e dopo un momento avvertii il suo respiro sulla guancia.

Poi Thecla svanì, e tutto scomparve con lei. Il mio pensiero fu lanciato nella notte, smarrendosi fra le rovine.

Quando tornai in me ero sdraiato sulle tegole vicino al fuoco. Mi sentivo la bocca piena di saliva e di sangue, segno che dovevo essermi morsicato le labbra e la lingua. Ero troppo debole per reggermi in piedi, ma riuscii a sedermi.

In un primo momento credetti che gli altri se ne fossero andati. Il tetto sotto di me era solido, ma i miei compagni erano diventati incorporei come spettri, ai miei occhi. Hildegrin sembrava un fantasma sdraiato alla mia destra… gli posai una mano sul petto e sentii il suo cuore palpitare come una falena in fuga. Jolenta era la più vaga di tutti, a malapena presente. Il trattamento di bellezza era stato molto più drastico di quanto aveva detto Merryn: sotto la sua pelle scorgevo fili e fasce metalliche, appena visibili. Poi mi guardai le gambe e i piedi e vidi che riuscivo a scorgere l’Artiglio, ardente come una fiamma azzurra, attraverso il cuoio dello stivale. Lo presi, ma le mie dita erano inerti e non riuscii ad estrarlo.

Dorcas pareva addormentata. Le sue labbra non erano sporche di bava e ai miei occhi sembrava più reale di Hildegrin. Merryn giaceva accasciata come una bambola vestita di nero, talmente sottile ed esile che Dorcas, nella sua fragilità, appariva robusta al confronto. Adesso che l’intelligenza non animava più quella maschera d’avorio, mi resi conto che non si trattava che di una pergamena tesa sulle ossa.

Come avevo immaginato, la Cumana non era una donna, pur non essendo uno degli orrori nei quali mi ero imbattuto nei giardini della Casa Assoluta. Qualcosa, liscio come un rettile, si avvolgeva intorno all’asta luminosa. Cercai la testa ma non la trovai, nonostante ogni disegno sul dorso del rettile raffigurasse una faccia e gli occhi di ogni volto fossero sperduti nell’estasi.

Dorcas si svegliò mentre osservavo i miei compagni. — Cos’è successo? — chiese. Anche Hildegrin stava iniziando a muoversi.

— Penso che stiamo vedendo noi stessi da una prospettiva diversa rispetto a quella di un singolo istante.

Lei aprì la bocca ma non udii alcun grido.

Nonostante le nuvole minacciose non avessero portato il vento, nelle strade sotto di noi la polvere turbinava. Non saprei come descriverlo se non come uno stuolo innumerevole di minutissimi insetti, grandi la centesima parte di un moscerino, che dopo essere rimasti nascosti nelle crepe del lastricato fossero stati attratti dal chiaro di luna e si fossero lanciati in un volo nuziale. Non si udiva alcun rumore e i loro movimenti non erano regolari; dopo un po’ tuttavia nella massa indifferenziata si crearono sciami che andavano avanti e indietro, sempre più grandi e fitti, e infine piombarono sulle pietre frantumate.

Mi sembrò allora che gli insetti avessero smesso di volare e che strisciassero uno sull’altro cercando di raggiungere il centro dello sciame. — Sono vivi — dissi.

Ma Dorcas sussurrò: — Guarda, sono morti.

Aveva ragione. Gli sciami che un istante prima ardevano di vita mostravano le costole sbiancate; i granelli di polvere, componendosi come frammenti di vetro antico messi insieme dagli studiosi per ricreare una finestra colorata distrutta da millenni, andarono a formare dei teschi che rilucevano verdi nel chiaro di luna. Animali… ailurodonti, massicci animali spelei e sagome furtive alle quali non sapevo dare un nome, tutte ancora meno consistenti di noi che le guardavamo dal tetto, si muovevano in mezzo ai morti.

Uno alla volta i morti risorsero e le bestie scomparvero. In un primo momento lentamente, iniziarono a ricostruire la loro città; le pietre vennero rimesse al loro posto, le travi modellate di cenere vennero inserite nelle intercapedini dei muri restaurati. Quelli che durante la resurrezione erano sembrati cadaveri ambulanti si rinvigorirono con il lavoro e diventarono esseri con le gambe storte che camminavano come i marinai e facevano rotolare pietre immense con la forza delle larghe spalle. La città fu rimessa a nuovo e noi restammo in attesa degli eventi.

Il silenzio della notte venne infranto dal suono dei tamburi; dai loro toni capii che quando avevano suonato l’ultima volta, la città doveva essere circondata dalla foresta, perché riecheggiavano come i suoni fanno solo fra i tronchi dei grandi alberi. Per la strada passò uno sciamano con la testa rasata, nudo e completamente ricoperto da pittografie eseguite in caratteri che non avevo mai visto, ma talmente espressivi che parevano urlare il loro significato.

Dietro di lui venivano i danzatori, cento o più, che volteggiavano al passo, incolonnati tenendo ciascuno la mano sulla testa di chi lo precedeva. I loro volti erano tesi verso l’alto e io mi domandai (cosa che faccio di frequente anche adesso) se per caso non stessero imitando nella danza il serpente dai cento occhi che noi chiamavamo Cumana. Girarono lentamente su e giù per la strada, intorno allo sciamano, quindi tornarono indietro fino a raggiungere l’ingresso della casa sopra la quale ci trovavamo noi. La lastra della porta cadde con uno schianto simile a un tuono e si diffuse un odore di mirra e di rose.

Un uomo uscì per accogliere i danzatori. Se avesse avuto cento braccia o se avesse avuto la testa sotto le mani non mi sarei meravigliato tanto, perché il suo volto mi era noto fin dall’infanzia: era il volto del bronzeo monumento funebre riposto nel mausoleo in cui avevo giocato da bambino. Indossava massicci bracciali d’oro, tempestati di giacinti e di opali, di corniole e di lampeggianti smeraldi. Avanzò a passi misurati fino a raggiungere il centro della processione, con i danzatori ondeggianti intorno a lui. Poi si voltò verso di noi e alzò le braccia. Ci guardò e io compresi che lui solo, fra tutte le centinaia di presenti, ci vedeva davvero.

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