Cercai di disimpegnarmi in modo altrettanto cortese, spiegando che dovevo ritornare a casa, al di là della grande acqua, ma che, se Dio l’avesse voluto, un giorno avrei fatto ritorno. Alla fine riuscii a partire.
Ma la cosa che mi aveva maggiormente stupito non era semplicemente quella. In base a qualsiasi giudizio non di parte, io sono un uomo ragionevolmente esperto del mondo. So che in certi paesi non vigono gli alti principi morali di noi americani e laggiù non si dà molto peso alle esibizioni invereconde. So che le donne polinesiane andavano in giro nude dalla cintola in su, prima che arrivasse la civiltà. Cribbio, leggo anch’io il National Geographic.
Ma non mi aspettavo di vederle.
Prima che attraversassi i carboni accesi, le donne erano vestite come sempre: gonnellini di paglia, ma seno coperto.
Ma quando mi diedero il bacio di addio, non lo erano più. Coperte, intendo dire. Erano come nelle antiche stampe.
Ora, io non disprezzo affatto la beltà femminile. Quelle deliziose differenze, osservate nelle circostanze debite, con le tende onestamente tirate, possono far salire il sangue alla testa. Ma, vedersene una quarantina davanti, può essere alquanto imbarazzante. Vidi più busti femminili in quella occasione che in tutta la mia vita. All’Associazione Metodista-Episcopale per la Morale e la Temperanza gli sarebbe preso un accidente.
Con il giusto preavviso, sono certo che mi sarei potuto godere l’esperienza. Invece era stata una cosa troppo nuova, troppo rapida, troppa. Per apprezzarla giustamente, dovevo ripensarci.
La nostra Rolls-Royce dei Tropici si arrestò con un cigolio grazie all’intervento del freno a mano, del freno a pedale, e del freno-motore. Io, ancora semi-euforico, sollevai la testa. L’autista annunciò: «Okay, capo!»
Gli dissi: «Non è la mia nave».
«Okay, capo?»
«Mi ha portato a un molo diverso. No, anzi; il molo sembra quello giusto, ma è la nave che non è la mia.» Ne ero certissimo: la M/N Konge Knut aveva le fiancate dipinte di bianco, vari ordini di ponti e un elegante falso fumaiolo. La nave che stava davanti a me era invece dipinta rosso-minio e aveva quattro fumaioli neri. Doveva essere una vaporiera, non una motonave a nafta. Quel tipo di naviglio era superato da decenni. «No. No!»
«Okay, capo. Vôtre vapeur! Voilà! »
« Non! »
«Okay, capo.» Scese dall’auto, fece il giro, aprì la portiera del lato passeggeri, mi afferrò per il braccio e prese a tirare.
Io sono in ottima forma, ma il suo braccio era rafforzato dalla pratica del nuoto, dall’arrampicata sulle palme da cocco, dal sollevamento di reti da pesca e dal tirare via dall’auto i turisti che non volevano uscirne. Scesi a terra.
Lui tornò dentro, mi lanciò un: «Okay, capo! Merci bien! Au ’voir! » e si dileguò.
Non potendo fare diversamente, salii sulla passerella del vascello ignoto, per sapere che cosa era successo alla Konge Knut. Quando misi piede a bordo, il sottufficiale di guardia alla passerella si portò la mano alla visiera e disse: «’Giorno, signor Graham, il signor Nielsen ha lasciato un pacchetto per lei. Un attimo…» Sollevò il ripiano del suo tavolino di guardia e prese una grossa busta gialla. «Ecco, signore.»
Sulla busta c’era scritto: “ A.L. Graham, cabina C109”. La aprii e trovai un portafogli consumato dall’uso.
«Tutto in ordine, signor Graham?»
«Sì, grazie. Può dire al signor Nielsen che l’ho ricevuto? E porgergli i miei ringraziamenti?»
«Certo, signore.»
Notai che quello era il ponte “D”; salii di un piano per trovare la cabina C109.
Diversamente da quel che avevo asserito poco prima, non tutto era in ordine. Io non mi chiamo “Graham”.
Grazie a Dio, le cabine delle navi hanno un sistema di numerazione logico. La numero C109 era dove ci si poteva aspettare di trovarla: sul ponte C, verso prua, a destra, fra la C107 e la C111 ; la raggiunsi senza bisogno di chiedere informazioni. Provai ad aprire la porta, ma la trovai chiusa a chiave. Evidentemente, Graham dava retta ai commissari di bordo, i quali dicono sempre di chiudere le porte, specialmente quando la nave è in porto.
E la chiave, pensai tristemente, è in tasca al vero Graham. Ma dov’era quell’uomo? Dietro di me, pronto a cogliermi mentre cercavo di intrufolarmi nella sua cabina? O anche lui, su un’altra nave, cercava di aprire la mia porta, mentre io cercavo di aprire la sua?
La possibilità che una data chiave riesca ad aprire un’altra serratura è molto piccola, ma c’è. In tasca avevo la mia chiave, della Konge Knut. Provai a infilarla nella toppa.
Be’, tentar non nuoce. Ero fermo davanti alla porta, nel dubbio se mettermi a starnutire o se cadere a terra morto, quando sentii, dietro di me, una voce carezzevole.
«Oh, signor Graham.»
Era una donna giovane e graziosa, in costume da cameriera… pardon, in uniforme da steward. Venne in fretta verso di me, prese un passe-partout che portava alla cintura, appeso a una sottile catena, aprì la C109 e disse: «Marga mi ha chiesto di tenere d’occhio la sua cabina. Mi ha detto che lei ha dimenticato la chiave sullo scrittoio. L’ha lasciata lì, ma mi ha pregato di aprirle la porta.»
«È stata infinitamente gentile, signorina…»
«Astrid. Io ho le cabine di tribordo, e, se occorre, io e Marga ci diamo il cambio. Oggi pomeriggio è scesa a riva.» Tenne la porta aperta, per lasciarmi passare. «Le serve altro, signore?»
La ringraziai ancora, e lei si allontanò. Chiusi la porta a chiave e tirai la spranga. Mi lasciai cadere su una sedia e diedi libero corso alla tremarella.
Dopo diedi minuti mi alzai, entrai in bagno e immersi la faccia nell’acqua fredda. Non avevo risolto niente e non mi ero calmato, ma almeno i miei nervi avevano smesso di tremare come bandiere al vento. Mi ero sostenuto con la pura forza di volontà fin da quando avevo avuto il sentore che ci fosse qualcosa di storto… ossia a partire da che momento? Da quando, nel camminare sui carboni accesi, mi era parso che nulla andasse per il giusto verso? O dopo? Be’, la prova definitiva l’avevo avuta quando al posto di una nave da ventimila tonnellate ne era comparsa un’altra.
Mio padre diceva sempre: «Alex, non c’è niente di male ad avere paura… basta solo averla dopo che il pericolo è cessato. Si può anche strillare e dare in smanie… ma dopo, e in privato. E anche gli uomini possono piangere… nel bagno e con la porta chiusa. La differenza tra un codardo e un coraggioso è soltanto questione di tempo».
Non sono come mio padre, ma ho sempre cercato di seguire i suoi ammaestramenti. Se impari a non saltare quando ti fanno scoppiare sotto i piedi una castagnola — o quale che sia la sorpresa — puoi riuscire a stare in piedi finché l’emergenza non è terminata.
Nel mio caso, l’emergenza non era affatto terminata, ma io mi ero potuto giovare della purificazione che ti viene data da un bel po’ di tremarella. Ora potevo fare il punto della situazione.
Ipotesi:
a) Qualcosa di assurdo era successo al mondo che mi circondava, oppure:
b) Qualcosa di assurdo era successo alla mente di Alex Hergensheimer; il suo posto era in manicomio, sotto sedativo.
Non mi venivano in mente altre ipotesi; queste due mi parevano sufficienti a coprire tutte le eventualità. Sulla seconda ipotesi, non mi pareva il caso di perdere tempo: se mi fosse mancata qualche rotella, la gente se ne sarebbe accorta. Mi avrebbero messo la camicia di forza, mi avrebbero trasferito in una cella imbottita.
Perciò, prendiamo come punto di partenza quello di avere ancora la ragione (o gran parte di essa, almeno; nella vita, un pizzico di follia serve sempre). E se io sono a posto, allora è il mondo che è fuori quadro. Facciamo l’inventario delle mie proprietà.
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