Interiormente ritraendosi dalla impervia corazza di metallo, Don si ritrovò al centro di quell'immensità centrale spruzzata di stelle. Forse era ampio solo venti miglia, ma ora gli sembrava un universo, e i grandi buchi nel suo cielo stellato parevano le porte di altri universi, ed egli sentì che c'erano degli esseri invisibili intorno a lui, impalpabili nebulosità pensanti che vivevano nelle gelide profondità dello spazio intergalattico, e questa presenza generò in lui un'improvvisa paura, ancor più acuta di quella prodotta dalla corteccia difensiva del pianeta.
Fu questa acuta paura, forse, a lanciarlo in una seconda esplorazione volante del Vagabondo. Non si limitò più ai corridoi, ma sfrecciò veloce attraverso le pareti, avvertendo il loro spessore soltanto come un momentaneo annebbiarsi della sua visione, come un breve battito di palpebre, percorrendo stanza dopo stanza, locale dopo locale, in una cavalcata turbinosa. E ora, quando faceva una pausa, si trovava sempre vicino a degli esseri viventi. Questi esseri viventi non erano di una sola specie, ma di molte.
Benché i felinidi, o uomini-gatto, come colui che lo aveva accolto sul pianeta, formassero una cospicua minoranza nell'equipaggio del Vagabondo, specialmente vicino alla superficie del pianeta, c'erano creature che parevano il prodotto finale di quasi tutte le linee di evoluzione terrestre, e anche di linee d'evoluzione completamente, irrevocabilmente aliene: cavalli dalle teste immense, con organi tattili e prensili annidati negli zoccoli; giganteschi ragni dagli occhi placidi, che pulsavano nelle giunture di una corrente sanguigna spinta da forti arterie; serpenti, con grandi occhi e piccoli tentacoli prensili; lucertole umanoidi, scintillanti di squame e dalle splendide, colorate creste; creature che avevano la forma, e si muovevano come grosse ruote, con un cervello centrale che ruotava in senso opposto, con gli organi sensoriali; piovre e polipi di terra, che si ergevano orgogliosamente su tre o sei tentacoli; e creature apparentemente ispirate da esseri mitici quali il basilisco e l'arpia. Queste creature mitiche Don le trovò nei più profondi recessi del pianeta, volando in una immensa sala che pareva un'immensa uccelliera. Questa sala, così grande da occupare diversi piani… un mondo interno a sua volta… era ricoperta di alberi sottili, dai molti rami nodosi, con piccole foglie, e illuminata da una dozzina di grandi lampade galleggianti che parevano soli.
Alcuni laghi color turchese che aveva scorto dal Baba Yaga erano profondi quanto erano ampi, e in essi abitavano balene dagli immensi occhi, e presumibilmente dai grandi cervelli, con braccia che parevano cavi, che terminavano in filamenti simili a dita. E accanto alle balene nuotavano altre creature marine, apparentemente intelligenti, dai volti mobili ed espressivi.
Don avrebbe voluto fermarsi a studiare tutte quelle creature, osservare le loro azioni nei dettagli, ma sempre il bisogno di vedere qualche altra forma di vita, ancor più misteriosa o prodigiosa, si impadroniva di lui e lo spingeva, così che le sue paure furono brevi come quelle avventure lungo i corridoi vuoti. In nessun caso le creature che egli osservava parvero rendersi conto della sua presenza.
Nessuna forma di vita pareva mantenere un isolamento razziale; aveva visto alcuni felini impegnati in conversazioni apparentemente amichevoli con le più piccole arpie, nel loro mondo-uccelliera, e c'era stato uno dei giganteschi ragni che aveva nuotato, usando come remi le lunghe zampe, e con indosso una sorta di tuta trasparente, nei profondi laghi delle balene.
Cominciò a sembrargli incredibile che la varietà e il numero degli esseri che stava osservando potessero essere ospitati da un pianeta delle dimensioni della Terra, ma poi si rese conto che, con tutti i suoi ponti, il Vagabondo aveva una superficie abitabile quindicimila volte superiore, almeno, a quella della Terra.
Malgrado il numero e la varietà, quasi tutti gli esseri che poté osservare così brevemente parevano occupatissimi, pressati da chissà quale urgenza. Anche le creature immobili gli parvero immerse nel lavoro… meditazioni d'importanza vitale. C'era un onnipresente senso di crisi.
Di quando in quando, come per un errore del disegno di volo, o forse per riposo, Don si fermava in una sala priva di occupanti: grandi serbatoi che si riempivano di roccia lunare; immensi corridoi di macchine silenziose e scintillanti di luci arcane, con grandi tubi e cavi nei quali scorrevano fluidi di molti colori; grandi serre di strana vegetazione, illuminate da lampade più luminose del sole… solo che quelle potevano essere delle piante intelligenti; caverne artificiali colme di strutture geometriche compatte, che parevano sull'orlo della vita, come quelle che si trovavano sulla superficie del Vagabondo; sale sferiche colme di materia solare pura, fiammeggiante, violenta, benché essa non lo bruciasse né lo accecasse.
A volte egli vide del lavoro fisico svolto da creature di protoplasma, apparentemente artificiali, simili a gigantesche amebe, le cui colonne prensili e i cui organi sensoriali variavano a seconda del lavoro che veniva svolto. Altrove, si vedevano al lavoro dei robot di metallo, che avevano la forma di ragni, di esseri a ruota, e di molte altre forme di vita… benché alcuni robot sembrassero realmente vivi, come lo parevano certe enormi strutture simili a giganteschi cervelli elettronici. Le loro pareti trasparenti mostravano scure masse gelatinose che scintillavano di filamenti sottilissimi d'argento, più sottili che dei capelli, come se avessero potuto farsi crescere nervi e cellule cerebrali a seconda del bisogno.
Più grande era la varietà di forme di vita intelligenti che Don vedeva, più egli diventava sensibile alla loro presenza. Ora, quando egli si fermò nuovamente nel globo centrale spruzzato di stelle, esso parve un brulicare di deboli, soffusi esseri di nebbia violetta, dalle forme continuamente mutevoli, e dalle molte braccia: gelide creature delle tenebre al di là delle stelle. E una volta, quando salì brevemente nel ponte più alto, egli scorse una delle grandi forme astratte colorate aprirsi come un uovo, e riversare sulla pianura un'orda di creature.
Eppure, più egli diventava sensitivo alla presenza di vita intelligente, più era scosso dalla convinzione che esistessero intorno a lui forme invisibili di vita, che i suoi sensi non potevano vedere… come se il Vagabondo avesse molti più fantasmi, a bordo, di tutti i membri del suo equipaggio.
Indugiò in un'immensa sala immersa nell'immobilità e nel silenzio, una sala profonda fatta di molte balconate, e quasi da un'infinità di cassette dai piccoli sportelli, come la sala di classificazione e registro di un'immensa biblioteca. C'erano dei filamenti che portavano dalle cassette a strumenti di visione, che davano l'idea di grandi microscopi, e a Don parve di scorgere movimento lungo quelle molteplici trame di tele di ragno, ed ebbe l'idea che in quel luogo microbi e virus servili stessero radunando, e ordinando per un'ispezione, delle molecole sulle quali era impressa la conoscenza totale delle razze e delle storie dei mondi. Tutto il pensiero e la cultura della Terra, si disse, sarebbe facilmente entrato in uno di quei piccoli sportelli, non avrebbe certo riempito interamente una delle cassette. Era come se in quel luogo lui sfiorasse la visione universale, onnisciente dell'eternità che a volte veniva chiamata Dio.
Da quella sala egli passò come un lampo immateriale in un'altra, molto più viva e colma di movimento, gremita di pannelli di comando, di mappe, di carte, di schermi e di cubi per la visione tridimensionale. Uno di questi cubi mostrava scene continuamente mutevoli di catastrofi: paesaggi e città dilaniati dal terremoto, percorsi dal fuoco, inondati da immense ondate e da un sollevarsi silenzioso delle acque. Guardò per qualche tempo, colmo di eccitazione, poi si rese conto, inorridito, che quello era il suo pianeta, la Terra, che subiva orrende mutilazioni, nella stretta della massa del Vagabondo… il Vagabondo, che poteva creare e annullare la gravità, a seconda dei desideri dei suoi occupanti.
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