La lancia conservò la rotta. Don Guillermo si meravigliò del fatto che le acque, intorno a loro, fossero così calme. Non pensava, in particolare, alla fantastica pressione che esse dovevano esercitare su quell'immensa estensione della costa, né poteva vedere nulla di minaccioso nell'assenza di cortine di vapore, benché, se ci avesse pensato, avrebbe capito che il vapore si formava ancora, molto più in basso.
Non ci fu alcuno stimolo definito, ma d'un tratto i tre uomini si guardarono in viso.
Don Guillermo schiacciò una zanzara che gli ronzava sul collo.
Un enorme bottone d'acqua si gonfiò, come un'escrescenza grigia, dalla placida superficie in direzione del sommerso Istmo di Rivas, e senza alcun suono crebbe, in tre secondi, fino a diventare un colossale fungo d'acqua, alto mezzo miglio e largo un miglio.
Qualcosa, che trasformava la superficie dell'acqua da una distesa chiara a una superficie spenta e opaca stava viaggiando da quel fungo verso la lancia.
I tre uomini guardarono, increduli.
L'onda d'urto provocata dall'esplosione colpì i timpani, e li abbatté sul fondo della lancia.
Don Guillermo riuscì a scorgere l'immensa collina verticale dell'acqua spinta dal vapore, un istante prima che essa avvolgesse lui e i suoi compagni. Pareva essere ricoperta dappertutto da una vegetazione acquea di fronde intrecciate, di un grigio cupo. Pensò, Il calore infernale. Qui io vado incontro a Macbelh. Eccomi, Graymalkin. Anche l'Istmo di Rivas svanì. Il Canale del Nicaragua diventò una realtà permanente.
Don Merriam aveva mangiato e dormito un'altra volta, nella sua piccola cabina a bordo del Vagabondo, quando si svegliò con una sensazione di immensa chiarezza interiore. Osservò tranquillamente il soffitto dal colore neutro che si illuminava.
Non sentiva il letto, sotto di lui, e si rendeva conto appena del suo corpo… i piccoli, esili messaggi nervosi del tatto e della tensione erano al minimo. Per quel che poteva stabilire, lui era disteso supino, con le braccia diritte e rilassate sui fianchi.
Improvvisamente, fu pervaso da una curiosità senza limiti intorno alla grande nave della quale era diventato un passeggero involontario. Tutto il suo essere era divorato dal desiderio di conoscere, di sapere, o, se questo non fosse stato possibile, almeno di vedere. La sensazione era intensissima, eppure non provava il desiderio di sfogarla con contrazioni del viso e del corpo e dei muscoli.
Senza preavviso, il soffitto cominciò a discendere velocemente su di lui.
Cercò di buttarsi giù dal letto, ma l'unico risultato fu quello di girarsi, senza apparente movimento, e allora vide la parte inferiore della parete e la «doccia» che si trovava oltre, e da quella visione capì che lui si trovava a quasi due metri di altezza, rispetto a essi.
Il soffitto non si era mosso. Lui stava galleggiando nell'aria. Prima sulla schiena, ora bocconi, a cinquanta centimetri dal soffitto.
Aveva il mento sollevato, e la testa piegata all'indietro, benché non avvertisse alcun senso di costrizione, e così la sua vista era diretta avanti, come la punta di una lancia. Non poteva guardare in basso, a qualsiasi punto del letto sottostante, benché tentasse di farlo, perché voleva sapere se avrebbe visto il suo corpo disteso laggiù… sia che fosse un corpo reale, o di sogno.
Né poteva sollevare le mani davanti al viso, per vederle. O era incapace di muovere braccia e gambe, o non le possedeva più.
Era impossibile stabilire se lassù lui avesse un corpo reale, o anche un corpo di sogno, o se fosse soltanto un punto di osservazione sospeso, con un corpo immaginario dietro di esso.
Una piccola prova: gli era impossibile vedere, ai margini del campo visivo, i contorni sfumati del naso e delle sopracciglia e delle guance che normalmente si vedono, e si ignorano. Ma forse questo avveniva soltanto perché la sua vista era diretta così irrevocabilmente avanti.
Improvvisamente egli cominciò a muoversi, rapidamente, in quella direzione, verso la parete. Chiuse gli occhi… poteva fare questo, almeno, o comunque interrompere momentaneamente la visione… e quando li riaprì, benché non ci fosse stato alcun urto, né la minima sensazione di una resistenza, scoprì di volare veloce lungo un corridoio d'argento, ricoperto di arabeschi e di geroglifici. Si aprì, quasi immediatamente, in uno dei grandi pozzi, o condotti, e con un senso improvviso di esultanza si tuffò nell'abisso.
A questo punto cominciò per Don Merriam un'esperienza che avrebbe potuto essere solo un vivido sogno, o un sogno indotto in lui dai suoi ospiti-catturatori, o una percezione extrasensoria di chiaroveggenza offertagli sotto forma di un sogno nel quale volava, o perfino… così gli sembrava… una trasformazione del suo corpo, reso perfettamente immateriale, capace di permeare tutte le pareti e l'atmosfera e altre barriere, un miracolo operato da una fisica e da una chimica aliene, e reso immune alla gravità e a tutte le altre comuni leggi della natura. E a questo modo egli si tuffò e volteggiò e avanzò nell'aria, quasi involontariamente, ma ugualmente guidato dalla divorante curiosità della sua mente, e fu un viaggio d'incubo e di sogno, splendido, irreale e reale, esaltante.
O forse, pensò brevemente, questo accadeva in un solo istante, fuori del tempo.
Don Merriam non poté stabilire quale tra queste, o tra altre inimmaginabili soluzioni, fosse la base della sua esperienza. Poté soltanto volare e volteggiare e vedere.
Dapprima, i suoi movimenti furono limitati ai corridoi e ai pozzi vuoti. O, se c'erano delle creature, o delle macchine mobili, o dei piccoli aerei, in quel dedalo di corridoi e pozzi, erano confusi e resi invisibili dalla rapidità del suo passaggio. La regola era che, per alcuni istanti lui viaggiava a una velocità quasi pari a quella della luce, così gli sembrava, conscio solamente della forma generale e della direzione del passaggio attraverso il quale viaggiava; poi galleggiava lentamente, per un breve periodo, capace di vedere tutto ciò che lo circondava da vicino; e poi sfrecciava via di nuovo, in parte involontariamente, in parte perché un imperioso desiderio di vedere qualcosa d'altro s'impadroniva di lui. Questo processo proseguì, apparentemente interminabile, eppure senza stanchezza e neppure noia, come se il tempo fosse ingigantito senza limiti, attraverso la lente bizzarra di qualche arcano telescopio.
Gradualmente, si formò e si stabilizzò nella sua mente l'immagine tridimensionale del Vagabondo, totalmente artificiale, un gioco a incastro di globi, un globo dentro l'altro per piani e piani e piani… cinquantamila globi almeno… ovunque venato da corridoi, come un'immensa spugna d'argento. Molti dei grandi pozzi attraversavano completamente il pianeta, intersecandosi al centro in un immenso globo vuoto che aveva un suo cielo nero scintillante di luci disseminate casualmente, come stelle tra le cavità ampie un miglio e più di pozzi, con le loro tenebre e le loro luci sofficemente baluginanti.
Ma sebbene la sua immaginazione si gonfiasse felice di quel senso di esultanza e di una nuova potenza che la sempre crescente comprensione della struttura del Vagabondo gli dava, una caratteristica del pianeta lo opprimeva, e poi cominciò a spaventarlo, più per le sue implicazioni che per la sua semplice natura: la corteccia dello spessore di trenta metri, fatta di nero metallo, che era il suo tetto ricoperto dal sottile velo ornamentale… il terreno sul quale il Baba Yaga e l'astronave lunare sovietica erano atterrati… e le rotonde ampie un miglio, fatte di metallo ugualmente spesso, già predisposte per scivolare dai loro recessi e coprire l'imboccatura dei pozzi, sigillando il pianeta come una grande fortezza.
A rinforzare questa peculiare minacciosità, c'erano gruppi di mostruose bobine, spirali e spirali di metallo che discendevano nei pozzi che giungevano al centro del pianeta, come se i pozzi potessero servire, chissà come, alla funzione di mostruosi acceleratori lineari.
Читать дальше