Fritz Leiber - Novilunio

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Perduta in uno spazio brulicante di stelle, sola in una nera giungla di vuoto cosmico, la Terra ha sognato per migliaia d'anni la propria solitudine. Come in una grande casa abitata da vecchi abitudinari, nella quale nessuno viene mai a rendere visita, così gli abitanti della Terra pensano che nessuno possa venirli a trovare da quel nero abisso scintillante di punti luminosi che splende sopra le nostre teste, di notte.
Come la Luna è stata una fedele compagna della Terra nella sua solitudine celeste, così le stelle sono state soltanto immagini remote, indistinte, piccole fiamme sospese nel cielo, inaccessibili e straniere e incorporee. Ma un giorno qualche viaggiatore, lasciando la strada lontana, potrebbe venire a bussare alla porta della vecchia casa; un giorno qualcosa potrebbe avvicinarsi, strisciando, nella giungla nera degli spazi cosmici. Quel giorno potrebbe essere vicino, in un cosmo dove le forze del tempo e del caso si muovono secondo schemi che la mente umana non riesce neppure a intuire. E cosa accadrebbe, se uno dei punti luminosi nel cielo… una delle stelle lontane… apparisse d'un tratto enorme, come un globo sanguigno e minaccioso, nei cieli notturni della Terra? Se la fedele compagna delnostro pianeta, la Luna, fosse risucchiata e cancellata dal cielo? Inizierebbe allora una lunga, infinita notte di novilunio. Un grande cielo color ardesia, dove le stelle brillano rade e fievoli, sopra coste battute da gigantesche maree, tra grandi cataclismi ed eventi ancor più bizzarri, una notte di novilunio che opera strani prodigi sulla mente e sul cuore degli uomini, facendo emergere tutto ciò che di migliore, e di peggiore, di nobile, e di volgare, costituisce l'essenza della natura umana. In questa notte di novilunio, forse il genere umano comincerebbe a conoscere se stesso…
Vincitore del premio Hugo per il miglior romanzo in 1965.

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Il cielo era un emisfero punteggiato di stelle, dominato dal riverbero del sole. A pochi diametri dal sole, la Terra galleggiava oscura, circondata da una sottile falce bluastra. Sopra l'orizzonte di torvo metallo si ergeva il Vagabondo, solo una metà del disco già spuntata, cinque volte più grande della Terra, ora, enorme, ma con il grande occhio giallo tagliato in due dalla argentea linea dell'orizzonte, così che esso pareva guatare più fieramente, quasi socchiudendo le palpebre.

«Credevo che saremmo stati proiettati all'interno,» disse Paul, indicando la torva superficie metallica ai loro piedi.

«A quanto pare, bloccano anche le immagini, per sottoporle alle loro ispezioni doganali,» replicò Don.

Paul disse:

«Be', se siamo delle onde radio, queste onde trasportano anche la nostra percezione.»

«Tu dimentichi che siamo ancora a bordo del disco,» fece Don.

«Ma allora, quale strumento vede tutto questo, e trasmette l'immagine al disco?» volle sapere Paul. Don scosse il capo.

Un lampo bianco esplose sulla pianura metallica, tra loro e l'emisfero violetto e giallo del Vagabondo. Svanì istantaneamente, poi ci furono altri due lampi, più lontano.

Paul pensò, La lotta è cominciata.

«Meteoriti!» esclamò Don. «Qui non c'è un'atmosfera che li possa fermare.»

In quell'istante, essi discesero attraverso la superficie di metallo, e si trovarono nelle tenebre. Le tenebre durarono solo un istante, un breve lampo nero… e poi si trovarono sospesi al centro di un'immensa sala sferica, immersa nella penombra, che aveva pareti e pareti e pareti di grandi occhi che guardavano all'interno.

Fu quella la prima impressione. La seconda fu che le losanghe disegnate non fossero occhi veri e propri, ma oblò neri, circondati da anelli dei colori più varii. Eppure insieme a questo giunse la sgradevole impressione che occhi di tutti i generi stessero osservando, attraverso quegli oblò simili a pupille.

Don e Paul, quasi contemporaneamente, ebbero dei veloci lampi di ricordi, stranamente uguali… l'impressione di essere accompagnati nello studio del preside, alla scuola media.

Don e Paul non erano soli in quell'immensa camera. Sospesi qua e là, insieme a loro, al centro della sfera, c'erano almeno cento esseri umani, o piuttosto le loro immagini tridimensionali… un'incredibile riunione di umanità. C'erano persone di tutte le razze, uniformi di paesi asiatici e africani, due uniformi dell'Astronautica Sovietica, un Maori dalla pelle nera e lucida, un arabo dal bianco velo, un indiano seminudo, una donna in pelliccia, e molti, moltissimi altri che potevano essere scorti solo di sfuggita, a causa delle altre figure che si frapponevano tra gli osservatori e loro.

Un argenteo raggio di luce, sottile come uno spillo, uscì da un punto accanto a uno degli oblò neri, e si allungò verso l'estremità opposta del campionario umano… mentre gli oblò scintillavano, come se occhi attenti fossero stati dietro di essi… e d'un tratto qualcuno cominciò a parlare rapidamente, ma con estrema calma, dal punto toccato dall'ago d'argento nel gruppo degli umani… o almeno così sembrava. Al suono della voce, Don provò un brivido, perché la riconobbe.

«Mi chiamo Gilbert Dufresne, Tenente, Astronautica degli Stati Uniti. Di servizio sulla Luna, ho lasciato il satellite a bordo di un'astronave monoposto per compiere una ricognizione del pianeta alieno, nello stesso momento in cui è cominciato il lunamoto. Per quello che so, i miei tre compagni sono morti durante la rottura della Luna.

«Ho iniziato un'orbita lunare est-ovest, e ben presto ho avvistato tre enormi astronavi a forma di ruota. Dei raggi di trazione di natura ignota hanno preso il controllo della mia astronave, a quel punto, e ci hanno attirati all'interno di una delle astronavi. Là ho incontrato una varietà di esseri alieni. Sono stato interrogato, penso, in virtù di un tipo a me ignoto di esplorazione mentale, e i miei bisogni fisici sono stati soddisfatti. Più tardi sono stato condotto sul ponte, o cupola di comando, dell'astronave, dove mi è stato permesso di osservarne il funzionamento e le operazioni.

«L'astronave si era allontanata dalla Luna, ed era sospesa sulla città di Londra, che era inondata dall'alta marea. Dei raggi, o un campo di forza a me sconosciuto, lanciati dalla nostra astronave, hanno respinto la massa d'acqua. Mi è stato chiesto di salire a bordo di una piccola astronave, in compagnia di tre alieni. Questa astronave è discesa, fermandosi nell'aria vicino alla sommità di un edificio che ho riconosciuto come il British Museum. Sono entrato in uno degli ultimi piani, accompagnato da uno degli esseri alieni. Là l'ho visto far rivivere cinque uomini che, a mio avviso, erano certamente morti quando siamo entrati. Poi siamo risaliti a bordo della piccola astronave, e dopo numerosi episodi analoghi siamo ritornati a bordo della grande astronave.

«Da Londra ci siamo spostati a sud, verso il Portogallo, dove la città di Lisbona era stata rasa al suolo da tremende scosse telluriche. Là ho visto…»

Mentre Dufresne continuava a parlare, Paul (che non l'aveva mai visto, pur avendo sentito parlare spesso di lui) cominciò a provare la sensazione che, per quanto le parole dell'uomo potessero essere veritiere, esse erano inutili, prive di valore… un fatuo chiacchierare sul margine di grandi eventi che irrevocabilmente si muovevano sulla loro strada. Gli oblò parevano osservare con cinico disprezzo, o meglio, parevano ricoperti da una fredda noia serpentina. Occhi impassibili di rettili annoiati. Il preside della scuola media stava ascoltando quella storia sincera e dettagliata senza udirla realmente, con la mente distratta da grandi decisioni.

Apparentemente questo presentimento fu una valida intuizione, perché, senza un altro preavviso, l'intera scena svanì, e fu istantanemanete sostituita dall'interno del disco volante a lui così familiare, più piccolo, più comodo, più luminoso, verde nel pavimento e nel soffitto, ora; e c'era Tigerishka, davanti al pannello nascosto dai fiori, che diceva:

«È inutile. Il nostro appello è stato respinto. Salite a bordo della vostra astronave, e ritornate sul vostro pianeta. Presto! Toglierò il contatto non appena sarete a bordo del Baba Yaga. Grazie per il vostro aiuto. Addio e buona fortuna, Don Merriam. Addio, Paul Hagbolt.»

Un circolo di pavimento verde si sollevò. Senza dire una parola, Don si calò a testa in giù nel portello, e cominciò ad avanzare all'interno del tubo.

Paul guardò Tigerishka.

«Sbrigati,» disse lei.

Miao si avvicinò cautamente. Paul si chinò, e quando la gattina lanciò un'occhiata a Tigerishka, la prese in mano, bruscamente. Facendo un passo verso il portello, accarezzò il pelo grigio. La sua mano rallentò e si fermò, nel mezzo della carezza, ed egli si voltò.

«Io non vado,» disse.

«Devi farlo, Paul,» disse Tigerishka. «La Terra è la tua patria. Presto.»

«Rinuncio alla Terra e alla mia razza,» rispose lui. «Voglio restare con te.» Miao si dibatté, nella sua mano, cercò di andarsene, ma lui la tenne stretta.

«Ti prego, vattene subito, Paul,» disse Tigerishka, finalmente voltandosi, e muovendosi, verso di lui. Lo guardava fissamente negli occhi. «Non potranno mai più esserci rapporti, tra noi.»

«Ma io voglio restare con te, mi hai sentito?» La sua voce fu d'un tratto così forte, e collerica, che Miao fu presa dal panico, e gli graffiò la mano, per liberarsi. La tenne stretta, e continuò, «Anche come il tuo animale domestico, se deve essere così. Ma io resto.»

Tigerishka si fermò, e il suo viso era a pochi centimetri da quello di Paul.

«Nemmeno come mio animale domestico puoi restare,» disse. «L'abisso tra noi non è abbastanza grande, neppure per questo… Oh, Vattene, vattene, stupido!»

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