— Già.
— … O la marcia sulla stazione di Chicago, dopo che avevamo perso tutto l’equipaggiamento in Ohio.
— Sì. Quello fu un anno disgraziato.
— Ma tu sei sempre nei guai, Karagee. Dalle mie parti c’è un proverbio per i tipi come te: «Nato per annodare la coda della tigre». È difficile starti assieme. Io, per me, amo la quiete e l’ombra, un libro di poesie, la mia pipa…
— Zitto! Sento qualcosa!
C’era rumore di zoccoli.
Un satiro apparve nel cerchio di luce sbilenco proiettato dalla lanterna caduta. Si muoveva nervosamente, e i suoi occhi andavano da me a Hasan a me, e su, giù, intorno, e oltre noi.
— Aiutaci, piccola creatura cornuta — dissi, in greco.
Avanzò con cautela. Vide il sangue, i Kouretes smembrati.
Si girò come per fuggire.
— Torna indietro! Ho bisogno di te! Sono io, il suonatore di flauto.
Si fermò e si voltò di nuovo. Le sue narici s’alzavano e s’abbassavano, fremevano. Gli orecchi puntuti erano tesi.
Tornò indietro, e un’espressione di dolore quasi umano si dipinse sul suo viso quando scavalcò i corpi macellati.
— La spada. Ai miei piedi — dissi, puntando gli occhi in basso. — Raccoglila.
Non sembrava che gli piacesse molto l’idea di toccare una cosa fatta dagli uomini, specialmente una spada.
Allora canticchiai le ultime strofe della mia canzone.
È tardi, è tardi, così tardi…
Gli occhi gli si inumidirono. Se li asciugò col dorso dei suoi polsi pelosi.
— Raccogli la spada e taglia i nodi. Raccoglila. No, non così, ti taglierai. Dall’altra parte. Sì.
La raccolse a dovere e mi guardò. Mossi la mano destra.
— I nodi. Tagliali.
Ce la fece. Gli ci vollero quindici minuti, e m’adornò il polso d’un braccialetto di sangue. Dovetti continuare a muovere la mano per impedirgli di tagliarmi un’arteria. Ma mi liberò, e poi mi fissò ansiosamente.
— Adesso dammi la spada e penso io al resto.
Depose la spada sulla mia mano tesa in avanti.
La presi. Qualche secondo dopo ero libero. Poi liberai Hasan. Quando mi girai nuovamente il satiro era scomparso. Udivo in distanza il suono d’un frenetico correre di zoccoli.
— Il Demonio mi ha perdonato — disse Hasan.
Ci allontanammo dal Posto Caldo il più velocemente possibile, evitando il villaggio dei Kouretes e dirigendoci a nord, finché raggiungemmo un sentiero in cui riconobbi la strada per Volos.
Se fosse stato Bortan a trovare il satiro e costringerlo in qualche modo a soccorrerci, o se invece la creatura ci aveva spiati e m’aveva riconosciuto, era una cosa di cui non potevo essere sicuro. Comunque Bortan non era tornato, sicché era più probabile la seconda ipotesi.
La città amica più vicina era Volos: un venticinque chilometri di strada, verso est. Se Bortan era arrivato lì, dove parecchi parenti l’avrebbero riconosciuto, ci sarebbe voluto ancora un bel po’ prima che tornasse. Mandarlo a cercare aiuto era stata un’azione decisamente disperata. Se s’era diretto da qualsiasi altra parte, non avevo idea di quanto ci potesse impiegare. Ma sapevo che avrebbe ritrovato le mie tracce, e le avrebbe seguite. Continuammo a procedere, ponendo il maggior spazio possibile dietro di noi.
Dopo una decina di chilometri eravamo spossati. Sapevamo di non poter resistere ancora molto senza un po’ di riposo, così tenemmo gli occhi ben aperti per vedere di scovare un posto sicuro dove dormire.
Alla fine riconobbi un’erta collina rocciosa dove avevo portato le pecore, da ragazzo. La piccola grotta da pecoraio, a tre quarti circa di strada sulla salita, era asciutta e vuota. La porta in legno che la chiudeva era ormai marcita, ma funzionava ancora. Prendemmo un po’ d’erba pulita per farci da letto, ci assicurammo che la porta fosse ben chiusa e ci coricammo. Dopo un momento, Hasan stava già russando. La mia mente vagabondò per un secondo prima di partire, e in quel secondo seppi che di tutti i maggiori piaceri (un bicchiere d’acqua fresca quando siete assetati, un po’ di liquore quando non lo siete, il sesso, una sigaretta dopo molti giorni d’astinenza, nessuno è paragonabile al sonno.
Il sonno li batte tutti…
Potrei dire che se il nostro gruppo avesse preso la strada più lunga da Lamia a Volos, quella che corre lungo la costa, tutta quanta la faccenda non sarebbe mai successa, e oggi Phil sarebbe ancora vivo. Ma non posso proprio giudicare quello che accadde in quei giorni; anche adesso, guardando indietro, non capisco come ridisporrei gli eventi se dovessi rifare tutto da capo. Le forze della distruzione finale avanzavano col passo dell’oca tra le rovine, le braccia alzate…
Nel pomeriggio seguente arrivammo a Volos, e poi sul Monte Pelion fino a Portaria. Dall’altra parte d’un burrone stava Makrynitsa.
Lo attraversammo e trovammo gli altri.
Phil li aveva guidati a Makrynitsa, aveva chiesto una bottiglia di vino e la sua copia del Prometeo Liberato , ed era andato a letto verso le due, a notte fonda.
La mattina Diane l’aveva trovato, sorridente e freddo.
Gli costruii una pira tra i cedri, vicino alle rovine del Vescovado, perché non voleva essere sepolto. La cosparsi d’incenso, d’erbe aromatiche, ed era alta il doppio d’un uomo. Quella notte sarebbe bruciata, e io avrei detto addio ad un altro amico. Sembra, guardando indietro, che la mia vita sia stata tutta una serie d’arrivi e partenze. Dico: «Ciao». Dico: «Addio». Solo la Terra resiste… All’inferno.
Così, nel pomeriggio, feci una passeggiata col gruppo fino a Pegase, il porto dell’antica Iolkos, situato sul promontorio opposto a Volos. Ci fermammo all’ombra degli alberi di mandorlo, sulla collina che s’affaccia sul mare e offre anche la vista delle montagne intorno.
— È da qui che sono partiti gli Argonauti in cerca del Vello d’Oro — dissi a nessuno in particolare.
— Chi erano? — chiese Ellen. — Ho letto la storia quando andavo a scuola, ma l’ho dimenticata.
— C’erano Eracle e Teseo e Orfeo il cantore, e Asclepio, e i figli del Vento del Nord, e Giasone, il capitano, che era un pupillo del centauro Chirone, la cui grotta, incidentalmente, si trova qui vicino, sulla cima del monte Pelion.
— Davvero?
— Te la mostrerò, una volta o l’altra.
— D’accordo.
— Da queste parti hanno combattuto anche gli dèi e i Titani — disse Diane, giungendomi a fianco. — Non è vero che i Titani hanno sradicato il Monte Pelion e l’hanno infilato sopra Ossa, per scalare l’Olimpo?
— Così dice la leggenda. Ma gli dèi erano buoni, e hanno rimesso a posto il paesaggio dopo la terribile battaglia.
— Un’imbarcazione — disse Hasan, indicandola con un’arancia mezza sbucciata che stringeva in mano.
Scrutai le acque, e vidi un puntino muoversi contro l’orizzonte.
— Sì. Usano ancora questo posto come porto.
— Forse è una nave d’eroi — disse Ellen, — che torna con dell’altro vello. Ma cosa se ne faranno, poi, di tanto vello?
— Non è il vello che è importante — ribatté Parrucca Rossa — ma il modo di procurarselo. Qualsiasi cantastorie lo sa. Le donne possono sempre ricavare dei maglioni dal vello avanzato. Ormai sono abituate a darsi da fare con gli scarti.
— Non s’intonerebbe ai tuoi capelli, cara.
— Nemmeno ai tuoi, figliola.
— Potrei tingerli. Non tanto facilmente come i tuoi, ovviamente…
— Lungo la strada — dissi, ad alta voce, — ci sono le rovine d’una chiesa bizantina, il Vescovado, che ho programmato di far restaurare entro due anni. La tradizione dice che lì si sono celebrate le nozze tra Peleo, un altro degli Argonauti, e la ninfa marina Teti. Forse conoscete la storia di quella cerimonia? Furono invitati tutti tranne la dea della discordia, ma lei intervenì ugualmente, lasciando come ricordo una mela d’oro con la scritta «Per la Più Bella». Paride ritenne di doverla assegnare ad Afrodite, e il destino di Troia fu segnato. L’ultima volta che Paride fu visto in giro, non era per niente allegro. Ah, che decisione! Come ho spesso detto, questa terra è piena di miti.
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