Roger Zelazny - Io, Nomikos, l'immortale

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Io, Nomikos, l'immortale: краткое содержание, описание и аннотация

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Anche pubblicato como “Io, l’immortale”.
“Io, Nomikos, l’immortale” è la secca risposta che Conrad Nomikos dà a chiunque voglia indagare sull’enigma del suo passato oscuro e misterioso. Tuttavia l’unica cosa che si sa con certezza sul suo conto è forse proprio questa: che il suo vero nome non è Conrad. Chi egli sia in realtà è una domanda cui è impossibile rispondere. Secondo alcuni egli ha avuto un tempo un nome diverso, quello del liberatore della Terra, l’uomo che ha combattuto contro l’impero stellare di Vega conquistando l’indipendenza del nostro mondo; secondo altri egli è invece Karaghiosis l’assassino; l’ipotesi più ardita è che si tratti di un essere vecchio quanto la storia della Terra, forse addirittura del mitico e temibile dio Pan! Per il momento Conrad deve fare da guida a un inviato del pianeta Vega, Cort Myshtigo, e condurlo a visitare le bellezze della Grecia antica e dell’antico Egitto rimaste ancora intatte dopo la breve guerra atomica che ha popolato di crateri radioattivi e di mostri mutanti il nostro pianeta.
Ma i fini dell’ambasciatore vegano in realtà sono ben diversi da quelli dichiarati: da questa visita dipende il futuro stesso dei Terrestri e la posizione che la Terra avrà tra i pianeti della Galassia, e il ruolo di Conrad Nomikos sarà molto più importante di quello di semplice accompagnatore.
Vincitore del premio Hugo per il miglior romanzo in 1966.

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Uccidemmo o mettemmo fuori uso tutte le nostre guardie prima che la folla fosse a metà strada da noi, e Diane, prendendo esempio da Ellen, scagliò le sue tre torce al magnesio contro quella massa di cannibali.

Poi ci mettemmo a correre. Ellen e Parrucca Rossa sorreggevano Dos Santos, che barcollava un po’.

Ma i Kouretes ci avevano chiuso la strada e stavamo correndo verso nord, in una direzione tangente rispetto alla nostra meta.

— Non possiamo farcela, Karagee — gridò Hasan.

— Lo so.

— … A meno che tu e io non li teniamo impegnati mentre gli altri vanno avanti.

— D’accordo. Dove?

— Alla fossa del barbecue, dove gli alberi s’infoltiscono attorno al sentiero. C’è una strettoia. Non riusciranno a colpirci tutti assieme.

— Bene! — Mi girai verso gli altri. — Ci avete sentiti? Correte ai cavalli! Phil vi guiderà! Hasan e io li terremo fermi finché potremo!

Parrucca Rossa girò la testa e cominciò a dire qualcosa.

— Non metterti a discutere! Andate! Volete crepare o salvarvi?

Volevano salvarsi. Scapparono.

Hasan ed io ci girammo, vicini ormai alla fossa del barbecue, ed attendemmo. Gli altri continuarono la fuga, sparendo nel bosco, dirigendosi verso il villaggio e il recinto dei cavalli. La folla continuò ad avanzare, diritta su Hasan e me.

La prima ondata ci raggiunse, e cominciammo ad uccidere. Ci trovavamo in un punto a forma di V, dove il sentiero sbucava dal bosco nella pianura. Sulla sinistra avevamo la fossa del barbecue; sulla destra un fitto gruppo d’alberi. Ne avevamo uccisi tre, e diversi altri stavano sanguinando, quando si ritirarono, si fermarono, poi presero ad aggirarci.

Allora ci mettemmo schiena contro schiena e continuammo a farli fuori non appena si avvicinavano.

— Se uno di loro ha una pistola siamo morti, Karagee.

— Lo so.

Un altro semi-uomo cadde sotto la mia spada. Hasan ne lanciò uno, urlante, nella fossa.

Poi ci furono addosso. Una lama entrò nella mia guardia e mi colpì sulla spalla. Un’altra mi carezzò la coscia.

— Tornate indietro, pazzi! Ho detto di ritirarvi, mostri!

Al che obbedirono, allontanandosi aldilà della portata delle nostre spade.

L’uomo che aveva parlato era alto un metro e sessantacinque. La sua mascella si muoveva come quella d’una marionetta, quasi avesse un paio di cardini, e i suoi denti si aprivano e si chiudevano con uno schiocco, e sembravano tanti pezzi del gioco del domino: neri, con qualche puntino bianco qua e là.

— Sì, Procuste — sentii dire ad uno.

— Prendete le reti! Catturateli vivi! Non avvicinatevi! Ci sono già costati troppo!

Moreby era al suo fianco, e piagnucolava.

— … Non sapevo, mio signore!

— Zitto, stregone dei miei stivali! Ci sei già costato un dio e molti uomini!

— Dobbiamo scappare? — chiese Hasan.

— No, ma tieniti pronto a tagliare le reti.

— Non è bene che ci vogliano vivi — decise.

— Ne abbiamo spediti parecchi all’inferno, per spianarci la strada — ribattei, — e siamo ancora qui a stringere le nostre spade. Cosa vuoi di più?

— Se corriamo via potremo prendercene altri due, forse quattro. Se aspettiamo, c’intrappoleranno e moriremo senza averli uccisi.

— E cosa te ne importa, una volta che sei morto? Aspettiamo. Finché restiamo vivi ci sono sempre delle possibilità. C’è sempre la speranza che succeda qualcosa di inaspettato a nostro favore.

— Come vuoi.

E quelli trovarono le reti e le gettarono. Ne facemmo a pezzi tre, prima che la quarta ci fregasse. La strinsero per bene e s’avvicinarono.

La spada mi venne strappata dal pugno, e qualcuno mi tirò un calcio. Era Moreby.

— Adesso morirete come solo pochissimi muoiono — disse.

— Gli altri sono fuggiti?

— Per il momento — rispose. — Li inseguiremo, li prenderemo, e li porteremo indietro.

Risi.

— Hai perso — dissi. — Ce la faranno.

Mi diede un altro calcio.

— È così che funzionano i tuoi regolamenti? — chiesi. — Hasan ha vinto l’Uomo Morto.

— Ha barato. La donna ha tirato una torcia.

Procuste gli giunse a fianco, mentre gli altri continuavano ad impacchettarci nella rete.

— Portiamoli alla Valle del Sonno — disse Moreby, — e operiamo su di loro i nostri incantesimi e teniamoli in serbo per futuri riti.

— Ciò è bene — assentì Procuste. — Sì, sarà fatto.

Nel frattempo Hasan doveva aver fatto scivolare il braccio sinistro attraverso la rete, perché lo tese improvvisamente in avanti e graffiò da vicino con le unghie la gamba di Procuste.

Procuste gli diede diversi calci, e uno anche a me per buona misura. Poi si grattò i graffi sul polpaccio.

— Perché l’hai fatto, Hasan? — chiesi, dopo che Procuste s’era allontanato ad ordinare che ci legassero agli spiedi del barbecue per portarci via.

— Dovrebbe esserci ancora un po’ di meta-cianuro sulle mie unghie — spiegò.

— E come c’è finito?

— Viene dalle pallottole che tenevo nella cintura, Karagee, e che loro non m’hanno tolto. Oggi mi sono spalmato le unghie, dopo essermele limate.

— Ah! Hai graffiato l’Uomo Morto all’inizio del combattimento…

— Sì, Karagee. Poi dovevo solo cercare di non crepare finché lui fosse caduto.

— Sei un assassino esemplare, Hasan.

— Grazie, Karagee.

Ci attaccarono agli spiedi, ancora avvolti nella rete. Quattro uomini, al comando di Procuste, ci sollevarono.

Con Moreby e Procuste che facevano strada, ci portarono via nella notte.

Mentre ci muovevamo lungo un sentiero tortuoso, il mondo cambiava attorno a noi. È sempre così quando ci si avvicina a un Posto Caldo. È come percorrere all’indietro tutte le ere geologiche.

Gli alberi lungo la strada cominciarono a cambiare d’aspetto, sempre di più. Alla fine il sentiero diventò il pavimento dell’umida navata d’una cattedrale, e tutt’attorno nere torri con foglie come felci; e cose ci spiavano tra gli alberi, con occhi gialli, stretti come fessure. Alta sulle nostre teste, la notte era una tenda nera, punteggiata di pallide stelle, adorna d’un frastagliato crescente di luna gialla. Dalla grande foresta venivano richiami come d’uccelli, che finivano con strani sbuffi. Davanti a noi una forma nera attraversò il sentiero.

Mentre avanzavamo gli alberi diventavano più piccoli, e più grandi gli spazi vuoti tra l’uno e l’altro. Ma non erano come gli alberi che avevamo visto al villaggio. Erano forme contorte che si muovevano, coi rami simili ad alghe vorticanti, i tronchi nodosi e radici di superficie che strisciavano lentamente sul suolo. Si udiva lo sgradevole trepestio di piccole cose invisibili che sfuggivano la luce della lanterna elettrica di Moreby.

Girando la testa potevo scorgere un debole globo luminoso, che pulsava ai limiti dello spettro visibile. Era sopra di me, in alto.

Una profusione di rampicanti neri copriva il terreno. Si contorcevano non appena uno dei nostri portatori ci posava sopra il piede.

Gli alberi divennero semplici felci. Poi anche queste scomparvero. Le rimpiazzarono enormi quantità di licheni vellutati, colore del sangue, che crescevano sulle rocce. Erano debolmente luminosi.

Non c’erano più rumori d’animali. Non c’era più nessun rumore, salvo lo sbuffare dei nostri quattro portatori, la cadenza dei piedi, e il click soffocato che produceva a tratti il fucile automatico di Procuste urtando contro una roccia.

I nostri portatori avevano spade nelle cinture. Moreby ne aveva parecchie, oltre a una piccola pistola.

Il sentiero saliva rapidamente. Uno dei nostri portatori bestemmiò. Lì la tenda della notte era piegata agli angoli verso il basso; s’incontrava con l’orizzonte, ed era piena d’una foschia color porpora, trasparente come fumo di sigaretta. Lenta, molto alta, schiaffeggiando l’aria come una razza sul pelo del mare, la forma d’un pipiragno si stagliò contro la faccia della luna.

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