Procuste cadde.
Moreby lo aiutò a tirarsi in piedi, ma Procuste vacillò e dovette appoggiarsi a lui.
— Cosa ti succede, mio signore?
— Un’improvvisa stanchezza, un intorpidimento delle membra… Prendi tu il fucile. S’è fatto pesante.
Hasan ridacchiò.
Procuste si girò verso Hasan, con la sua mascella da marionetta spalancata.
Poi cadde di nuovo.
Moreby aveva appena preso il fucile, e si trovava con le mani occupate. Le guardie ci deposero a terra con una certa urgenza, e si precipitarono a fianco di Procuste.
— Avete un po’ d’acqua? — chiese, e chiuse gli occhi.
Non li riaprì mai più.
Moreby gli auscultò il cuore; poi si portò alle narici la parte coperta di piume del suo bastone di comando.
— È morto — annunciò alla fine.
— Morto?
Il portatore che era coperto di squame cominciò a singhiozzare.
— Era buono — sospirò. — Era un grande capo guerriero. Cosa faremo adesso?
— È morto — ripeté Moreby, — e io sono il vostro capo finché non sarà eletto un nuovo capo guerriero. Avvolgetelo nei vostri mantelli. Lasciatelo su quella roccia piatta. Nessun animale si spinge fin qui, così non verrà molestato. Lo riprenderemo sulla via del ritorno. Adesso, però, dobbiamo avere la nostra vendetta su questi due. — Gesticolò con la mano. — La Valle del Sonno è qui vicino. Avete preso le pillole che vi ho detto?
— Sì.
— Sì.
— Sì.
— Sììì.
— Molto bene. Adesso prendete i vostri mantelli e avvolgetelo.
Quelli obbedirono, e presto fummo risollevati e portati sulla cima d’un’altura da cui partiva un sentiero che finiva in un pozzo fluorescente, irregolare. Le grandi rocce lì intorno sembravano quasi in fiamme.
— Mio figlio — dissi ad Hasan — mi ha descritto questo posto, e mi ha detto che il filo della mia vita passa su una roccia che brucia. Mi ha visto minacciato dall’Uomo Morto, ma evidentemente il fato ci ha ripensato e ha fatto un regalino a te. Quand’ero solo un sogno nella mente della morte, questo posto fu scelto come uno di quelli dove avrei potuto morire.
— Cadere in disgrazia del diavolo significa arrostire — commentò Hasan.
Ci portarono giù nella fessura e ci appoggiarono alle rocce.
Moreby tolse la sicura al fucile e fece un passo indietro.
— Liberate il greco e legatelo a quella colonna. — Gesticolò con l’arma.
Obbedirono, legandomi per bene mani e piedi. La roccia era liscia, umida, fatale senza parerlo.
Poi fecero lo stesso con Hasan, sistemandolo a qualche metro sulla mia sinistra.
Moreby aveva poggiato la lanterna per terra, e quella gettava un semicerchio giallo intorno a noi. I quattro Kouretes al suo fianco erano statue di demoni.
Sorrise. Appoggiò il fucile sulla parete di roccia che gli stava alle spalle.
— Questa è la Valle del Sonno — c’informò. — Quelli che dormono qui non si svegliano più. Ma la carne resta ben conservata, in vista delle annate magre. Prima che vi abbandoniamo, però… — I suoi occhi si girarono su di me. — Vedi dove ho messo il fucile?
Non gli risposi.
— Credo che le tue budella possano arrivare fin lì, Commissario. Ad ogni buon conto, ho l’intenzione di sincerarmi. — Estrasse un pugnale dalla cintura e avanzò verso di me. I quattro semi-uomini si mossero con lui. — Chi credi che abbia più fegato? — chiese. — Tu o l’arabo?
Nessuno dei due rispose.
— Lo vedrete da soli — disse, a denti stretti. — Prima tu!
Mi tirò fuori la camicia e la lacerò sul davanti.
Fece ruotare la lama in lenti cerchi molto significativi ad un paio di centimetri dal mio stomaco, continuando nel frattempo a studiarmi il viso.
— Hai paura — disse. — Non ti si legge ancora in faccia, ma non ci vorrà molto.
Poi: — Guardami! La lama entrerà con lentezza enorme. E uno di questi giorni cenerò col tuo corpo. Cosa ne pensi?
Risi. D’improvviso, valeva la pena di riderci sopra. La sua faccia sembrò stravolta, poi si piegò ad una momentanea espressione di stupore.
— La paura ti ha fatto impazzire, Commissario?
— Piume o piombo? — gli chiesi.
Sapeva cosa significava. Fece per dire qualcosa, e poi sentì un sasso rotolare a qualche metro di distanza. Girò la testa da quella parte.
Passò gli ultimi secondi della sua vita a gridare, prima che la forza del balzo di Bortan lo schiacciasse contro il suolo, e la testa gli fosse strappata dalle spalle.
Il mio cagnone era arrivato.
I Kouretes gridarono, perché i suoi occhi sono carboni accesi e i suoi denti sono lame d’acciaio. La sua testa è alta dal suolo quanto quella d’un uomo. E per quanto loro afferrassero le spade e lo colpissero forte, i suoi fianchi sono quelli d’un armadillo. Un bel pezzo di cane, il mio Bortan… Non proprio come quelli di cui scriveva Albert Payson Terhune.
Lavorò per un minuto buono, e quando ebbe finito erano tutti a pezzettini, e nessuno vivo.
— Che cos’è? — chiese Hasan.
— Un cucciolo che ho trovato in un sacco, abbandonato sulla spiaggia, troppo resistente per affogare. Il mio cane, Bortan.
C’era una piccola ferita nella parte più tenera della sua spalla. E non se l’era fatta adesso.
— Prima ci ha cercati nel villaggio — dissi, — e hanno tentato di fermarlo. Parecchi Kouretes ci hanno rimesso la pelle.
Trotterellò avanti e mi leccò il viso. Scodinzolò, uggiolò come un cucciolo felice, e corse in piccoli cerchi. Mi saltò addosso e mi leccò di nuovo il viso. Poi tornò a correre, facendo schizzare attorno pezzi di Kouretes.
— È bello per un uomo avere un cane — disse Hasan. — Io sono sempre stato innamorato dei cani.
Bortan lo stava fiutando, mentre parlava.
— E così sei tornato, vecchio bastardo — gli dissi. — Non lo sai che i cani sono estinti?
Scosse la coda, mi tornò vicino e mi leccò la mano.
— Mi spiace di non poterti grattare gli orecchi. Ma lo sai che mi piacerebbe, no?
Agitò la coda.
Aprii e chiusi la mano destra, ancora legata. Girai la testa da quella parte, per indicargli la mano. Bortan mi osservava, le narici umide e frementi.
— Mani, Bortan. Ho bisogno di mani che mi liberino. Mani che taglino questi lacci. Devi trovarle, Bortan, e portarle qui.
Raccolse un braccio che giaceva sul suolo e me lo depose ai piedi. Poi guardò in su e scosse la coda.
— No, Bortan. Mani vive. Mani amiche. Mani che mi liberino. Mi capisci, non è vero?
Mi leccò la mano.
— Va a cercare le mani. Ancora attaccate al corpo, e vive. Mani di amici. Adesso, veloce! Vai!
Girò su se stesso e s’allontanò, si fermò, guardò indietro una volta, poi risalì il sentiero.
— Ti capisce? — chiese Hasan.
— Penso di sì — gli risposi. — Non ha il cervello d’un cane qualsiasi, e ormai sono passati più anni della vita d’un uomo da quando è nato, perciò ha avuto tutto il tempo per imparare a capire.
— Allora speriamo che trovi qualcuno in fretta, prima che ci addormentiamo.
— Sì.
Restammo lì legati, e la notte era fredda.
Aspettammo molto a lungo. Poi perdemmo la nozione del tempo.
I muscoli erano tutti un crampo doloroso. Eravamo coperti del sangue secco d’innumerevoli ferite. Eravamo tutti ammaccati. Eravamo sfiniti per la fatica e per la mancanza di sonno.
Restammo lì legati alle rocce, con le corde che affondavano nella nostra pelle.
— Credi che ce la faranno ad arrivare al tuo villaggio?
— Abbiamo dato loro una buona partenza. Penso che abbiano decenti possibilità.
— È sempre difficile lavorare con te, Karagee.
— Lo so. Anch’io me ne sono accorto.
— … Come l’estate che siamo rimasti a marcire nelle galere della Corsica.
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