«Cosa combini?» gli gridò Daeman. «Cosa ci guadagniamo ad andare lì? Nessuno ci ha messo piede da un milione di anni. Finiremo tutti congelati, quando…»
Con un calcio Harman spalancò la porta in fondo al corridoio. Ne uscì un fiotto di luce. E di calore. Gli altri tre raggiunsero Harman, muovendosi con la massima velocità possibile sull’infido pavimento coperto di ghiaccio.
La stanza, come quella dove erano stati faxati, misurava circa dieci metri quadrati ed era senza finestre. Ma, a differenza dell’altra, era calda, illuminata e priva di neve o ghiaccio. Ed era quasi totalmente occupata da un disco metallico del diametro di più di tre metri. Il disco galleggiava silenziosamente a un metro dal pavimento. Un campo di forza brillava come un baldacchino di vetro sopra la parte superiore del cerchio argenteo. Sul piano c’erano sei incavature rivestite di un morbido materiale nero; ciascuna, a forma di corpo umano, presentava due corte impugnature o manopole di comando in corrispondenza dei punti dove si sarebbero dovute posizionare le mani.
«Si direbbe che qualcuno aspettasse altri due, oltre a noi» mormorò Hannah.
«Ma che diavolo è?» chiese Daeman.
«Credo sia un sonie, detto anche VVA» rispose Harman, anche lui a voce bassa.
«Cosa?» chiese Daeman. «Cosa significa, quella parola?»
«Non lo so» rispose Harman. «Ma la gente dell’Età Perduta usava macchine come questa per volare in giro.» Toccò il campo di forza, che sotto le dita si divise come mercurio, gli rifluì intorno alla mano e gli inghiottì il polso.
«Attento!» gridò Ada, ma Harman si era già abbassato prima sulle ginocchia e poi sullo stomaco; si distese carponi e si sistemò sul morbido materiale nero. Testa e schiena sporgevano un pochino dalla curvatura superiore della macchina.
«Tutto bene» disse Harman. «È comodo. E caldo.»
Gli altri si fidarono. Ada fu la prima a strisciare sul velivolo, stendendosi sullo stomaco e stringendo le impugnature. «Sono una sorta di comandi?» chiese.
«Non ne ho idea» rispose Harman, mentre Hannah e Daeman prendevano posto nelle incavature esterne, lasciando vuote le due centrali.
«Non sai come far volare quest’aggeggio?» s’informò Ada, in tono un po’ più stridulo, stavolta. «Dai libri? Dalle tue letture?»
Harman si limitò a scuotere la testa.
«Allora che ci facciamo qua sopra?» chiese Ada.
«Una prova» rispose Harman. Girò la parte superiore della manopola destra. C’era un pulsante rosso. Harman lo premette.
La parete di fronte a loro scomparve come soffiata via nella notte antartica. Vento freddo e fiocchi di neve turbinarono intorno a loro in un’accecante implosione, come se l’aria della stanza fosse fuggita via e avesse attirato la tempesta al suo posto.
Harman aprì bocca per dire: "Tenetevi forte!", ma prima che potesse parlare, il disco balzò fuori dalla stanza a velocità incredibile, premendo contro il metallo la suola delle loro scarpe e costringendo tutti ad afferrarsi freneticamente alle manopole.
La bolla del campo di forza sulla loro testa li tenne in vita, mentre il sonie, il Veicolo a Volo Automatico, il "disco volante", sfrecciava fuori dal bianco vulcano alle cui pendici erano abbarbicati, sul lato verso il mare, edifici in rovina incrostati di ghiaccio. Le lenti a visione notturna nel cappuccio delle termotute permisero ai quattro passeggeri di vedere la foresta d’abeti, lungo la costa, morta e congelata, le attrezzature automatiche abbandonate e coperte di neve, lungo una baia, e poi il bianco mare… bianco di ghiaccio.
Il disco si mise in assetto orizzontale a circa trecento metri sul mare ghiacciato e si allontanò velocemente dalla terraferma.
Harman lasciò una manopola il tempo sufficiente a mettere in funzione l’indicatore direzionale sulla palma. «Nordest» disse agli altri, attraverso l’intercom della termotuta.
Nessuno rispose. Tutti si tenevano stretti e tremavano troppo per fare commenti sulla direzione in cui la macchina puntava nel portarli alla morte.
Harman tenne per sé un particolare: se le vecchie mappe da lui studiate erano precise, per migliaia di chilometri in quella direzione non c’era niente. Niente.
Dopo dieci minuti di volo il disco cominciò a perdere quota. Avevano oltrepassato il ghiaccio e ora volavano sopra acqua nera disseminata di iceberg.
«Cosa succede?» chiese Ada. Trovò odioso il tremolio nella propria voce. «Questo coso ha terminato l’energia… il carburante… o quello che usa, qualsiasi cosa sia?»
«Non so» rispose Harman.
Il disco tornò in assetto orizzontale a una trentina di metri appena sopra l’acqua.
«Guardate!» esclamò Hannah. Staccò dalla manopola la mano per indicare un punto davanti a loro.
All’improvviso il dorso di una creatura enorme, vivente, coperta di cirripedi per l’età, con la carne corrugata e dura, infranse il freddo mare, col suo calore da mammifero che irradiava come sangue pulsante nelle lenti potenziate per la visione notturna. Uno zampillo d’acqua si alzò verso di loro e Harman sentì odore di pesce nell’aria fresca che il campo di forza lasciava passare.
«Cosa…» cominciò Daeman.
«Credo si chiami… balena, se la pronuncia è esatta… ma pensavo che quella specie si fosse estinta millenni fa, prima del fax finale.»
«Forse i post-umani l’hanno riportata qui nel corso del fax finale!» disse Ada, dall’intercom della tuta.
«Forse.»
Sfrecciarono più lontano sul mare, sempre verso est-nordest; dopo alcuni minuti in cui il disco si manteneva a quella quota, i quattro passeggeri cominciarono a rilassarsi un poco, adattandosi, come l’uomo ha fatto da epoche immemorabili, alla nuova e strana situazione. Harman si era girato sul fianco e guardava le brillanti stelle che comparivano fra le nubi sparse; a un tratto fu scosso dal grido di Ada. «Guardate! Davanti a noi!»
All’orizzonte scuro era comparso un grosso iceberg e il disco gli si precipitava contro. La macchina aveva già sorvolato o scansato altri iceberg, ma nessuno grande come quello (si estendeva ai lati per chilometri, come una brillante muraglia biancazzurra nelle lenti per la visione notturna) né alto come quello (era chiaro che la cima del gigantesco iceberg superava l’attuale quota del loro velivolo).
«Cosa possiamo fare?» chiese Ada.
Harman scosse la testa. Non aveva idea della velocità del sonie (nessuno di loro aveva mai viaggiato a velocità superiore di quella di una troika tirata da un voynix) ma capiva che era elevata e immaginava che l’impatto li avrebbe uccisi tutti.
«Ci sono altri comandi nella manopola?» chiese Hannah. La sua voce era curiosamente calma.
«No» rispose Harman.
«Potremmo saltare» disse Daeman, dietro e a sinistra di Harman. Il disco si inclinò un poco, mentre Daeman si alzava sulle ginocchia e sui gomiti, con la testa a sfiorare la bolla del campo di forza.
«No» disse Harman, mettendo nella parola la forza del comando. «Non dureresti trenta secondi in mare, anche sopravvivendo alla caduta… e già questo mi pare impossibile. Rimettiti disteso.»
Daeman tornò a distendersi.
Il disco non rallentò né cambiò direzione. La parete dell’iceberg (Harman immaginò che il blocco di ghiaccio avesse un diametro di almeno tre chilometri) si precipitò contro di loro, sempre più grande. Harman stimò che si alzasse almeno cento metri sull’acqua. Sarebbero andati a sbattere a due terzi della gelida muraglia.
«Non possiamo fare niente?» chiese Ada. Una constatazione, più che una domanda.
Harman si tolse il cappuccio e la guardò. L’aria fredda non era poi male, nell’abitacolo prodotto dal campo di forza. «Non credo» disse. «Mi spiace.» Allungò la mano destra a prenderle la sinistra. Ada si tolse il cappuccio per mostrargli gli occhi. Poi tutt’e due tennero allacciate le dita per qualche secondo.
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