Devo abituarmici, aveva pensato, e aveva continuato a fissare il blu finché il cuore non gli si era messo a battere rapidamente e il groppo in gola non gli si era gonfiato oltremisura.
Dovette chiudere gli occhi e seppellire il capo sotto la protezione delle braccia a intervalli sempre più brevi. Lentamente la sua sicurezza svanì e neppure il contatto con là fondina del fulminatore appena ricaricato poté invertire la corrente.
Tentò di tenere la mente applicata al suo piano di attacco. Per prima cosa imparare gli usi del pianeta. Disegnare il sottofondo contro cui ogni cosa doveva essere collocata, pena il continuare a non capirci nulla.
Vedere un sociologo!
Aveva chiesto a un robot il nome del sociologo più eminente di Solaria. E c'era stato il conforto che i robot non fanno domande.
Il robot aveva dato nome e curriculum e si era fermato a far notare che probabilmente il sociologo sarebbe stato a pranzo e che quindi sarebbe stato possibile che chiedesse di ritardare l'incontro.
«A pranzo!» aveva esclamato Baley. «Non essere ridicolo. Non sarà mezzogiorno prima di due ore.»
«Sto usando il tempo locale, padrone» aveva chiarito il robot.
Baley era rimasto un istante a fissarlo, poi aveva capito. Sulla Terra, con le sue Città sepolte, giorno e notte, dormendo e svegliandosi, c'erano periodi a misura d'uomo, adatti alle necessità delle comunità e del pianeta. Su un pianeta come questo, esposto al sole senza riparo, giorno e notte non erano affatto una questione di scelta, ma un'imposizione all'uomo, volente o nolente.
Baley aveva cercato di rappresentarsi un mondo come una sfera accesa e spenta man mano che girava. Vi era riuscito a malapena, disprezzando i cosiddetti superiori spaziali che lasciavano che una cosa essenziale come il tempo fosse imposta loro dalle bizzarrie dei movimenti planetari.
«Chiamalo lo stesso» aveva detto infine.
Quando l'aereo atterrò c'erano dei robot ad aspettarlo e, uscendo di nuovo all'aperto, Baley si trovò a tremare come una foglia.
«Fammi appoggiare al tuo braccio, ragazzo» borbottò al robot più vicino.
Il sociologo lo aspettava all'altra estremità di una lunga sala, sorridendo teso. «Buon giorno, mister Baley.»
Baley annuì senza fiato. «Buon giorno, signore. Le dispiacerebbe schermare le finestre?»
«Sono già schermate» rispose il sociologo. «Conosco un po' degli usi della Terra. Vuole seguirmi?»
Baley si costrinse a farlo senza aiuto dei robot, attraversando un labirinto di saloni. Quando finalmente poté sedere in una grande ed elaborata sala, fu felice dell'opportunità di riposare.
I muri della sala erano pieni di alcove curve e profonde. Ogni nicchia era occupata da una statua in rosa e oro: figure astratte che compiacevano l'occhio senza rendere un significato immediato. Un grosso aggeggio a forma di scatola con bianchi oggetti cilindrici che tintinnavano e numerosi pedali dava l'impressione di essere uno strumento musicale.
Baley guardò il sociologo che stava in piedi davanti a lui. Lo spaziale aveva lo stesso aspetto di quando Baley l'aveva visionato qualche tempo prima. Era alto e sottile, con i capelli completamente bianchi. Aveva un sorprendente volto triangolare, col naso prominente e gli occhi vivi e infossati.
Si chiamava Anselmo Quemot.
Continuarono a fissarsi l'un l'altro, finché Baley non fu certo che la voce gli era tornata ragionevolmente normale. E le sue prime parole non avevano nulla a che fare con l'investigazione. In effetti non erano quelle che aveva intenzione di dire.
Disse: «Potrei avere un drink?».
«Un drink?» La voce del sociologo era un po' troppo acuta per risultare piacevole. «Desidera dell'acqua?»
«Preferirei qualcosa di alcolico.»
Lo sguardo del sociologo era sempre più infelice, come se gli obblighi dell'ospitalità fossero qualcosa cui non era abituato.
E questo, pensò Baley, era vero alla lettera. In un mondo in cui ci si visionava, non esistevano divisioni di cibo e di bevande.
Un robot gli portò una piccola e delicata tazzina smaltata. Il drink era leggermente rosaceo. Baley lo odorò con cautela, poi lo assaggiò con una cautela anche maggiore. Il piccolo sorso di liquido gli evaporò caldo in bocca e gli mandò un piacevole messaggio per tutta la lunghezza dell'esofago. Il sorso successivo fu più sostanzioso.
«Se ne vuole un altro…» disse Quemot.
«No, grazie, non ora. È stato gentile, signore, ad accettare di vedermi.»
Quemot tentò di sorridere, senza visibilmente riuscirci. «È passato un sacco di tempo, da quando ho fatto una cosa del genere. Sì.»
Quasi si contorceva mentre parlava.
«Immagino che lo troverà piuttosto duro.»
«Completamente.» Quemot si voltò di scatto e andò a rifugiarsi nel lato opposto del salone. Girò una sedia in modo da essere più voltato altrove che verso Baley e sedette. Intrecciò le mani guantate, con le narici che sembravano fremergli.
Baley finì il suo drink. Sentiva calore sulle labbra e anche tornargli la fiducia in se stesso.
«Che cosa prova esattamente» disse «con me qui, dottor Quemot?»
«Questa è una domanda molto personale» borbottò il sociologo.
«Lo so. Ma credo di averle spiegato, quando l'ho visionata prima, che sono stato incaricato di investigare su un omicidio, e che vorrei farle molte domande, alcune delle quali sono necessariamente personali.»
«L'aiuterò se posso» disse Quemot. «Sperò solo che le domande siano decenti.» Mentre parlava continuava a guardare altrove. Quando gli occhi gli si posavano sul volto di Baley, non indugiavano, ma scivolavano subito via.
«Non voglio parlare delle sue sensazioni» disse Baley «per curiosità. È essenziale ai fini investigativi.»
«Non vedo come.»
«Su questo mondo devo sapere più che posso. Devo capire come si sentono i solariani relativamente alle questioni di tutti i giorni. Capisce?»
Ora Quemot non guardava più Baley, nemmeno per sbaglio. Disse lentamente: «Dieci anni fa è morta mia moglie. Vederla non era mai stata una cosa facile, ma col tempo uno impara a sopportare certe cose e lei non era invadente. Non me n'è stata assegnata un'altra, poiché ormai avevo passato l'età del… del…» guardava Baley come se gli chiedesse di completare la frase e, poiché Baley non lo faceva, proseguì con voce più bassa «generare. Senza nemmeno una moglie ho perso sempre di più l'abitudine a questo fenomeno del vedere».
«Ma come ci si sente?» insistette Baley. «Le viene il panico?» Pensava a se stesso nell'aereo.
«No. Niente panico.» Quemot girò leggermente il capo per dare un'occhiata a Baley e lo ritirò quasi all'istante. «Ma sarò franco, mister Baley. Ho l'impressione di sentire il suo odore.»
Automaticamente Baley si ritrasse sulla sedia, con un senso di penosa autocoscienza. «Il mio odore?»
«Del tutto immaginario, naturalmente» disse Quemot. «Non posso dire se lei ha un odore né quanto possa essere pungente ma, anche se l'avesse pungente, i filtri che ho nel naso non me lo farebbero percepire. Eppure l'immaginazione…» Scrollò le spalle.
«Capisco.»
«E c'è di peggio. Lei mi perdonerà, mister Baley, ma con l'effettiva presenza di un essere umano io mi sento fortemente come se qualcosa di melmoso stesse per toccarmi. Continuo a ritirarmi per il disgusto. È molto spiacevole.»
Baley si fregò l'orecchio pensierosamente e lottò per non seccarsi. Dopo tutto era la nevrotica reazione dell'altro a un semplice stato d'affari.
«Ma se è così,» obiettò «sono sorpreso che lei abbia acconsentito tanto prontamente a vedermi. Certo aveva previsto questa spiacevolezza.»
«Infatti. Ma, sa, ero curioso. Lei è un terrestre.»
Baley pensò sardonicamente che quello avrebbe potuto essere un altro argomento contro il fatto di vedersi, ma si limitò a dire: «E come mai?».
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