— Bene. Ordine: portala via.
La fiaschetta scomparve. La donna appariva un po’ meno irritata di prima.
— Riesci a parlare? Prova una parola.
Peron deglutì, impartì un ordine alle sue corde vocali, e venne compensato da un grugnito e da un colpo di tosse raschiante. Tentò di nuovo.
— Sssii. S-siii. — La sua stessa voce gli suonava aliena agli orecchi.
— Eccellente. Dai tempo al tempo. E ascoltami. Ci sono alcune cose che devi conoscere, e non guadagneremo niente a non dirtele. Sai cosa sono gli Immortali?
— Essi vizzi… vizzitano… Pen’coss. Non so ’mani… o no. Vava… vivono per ’empre.
— Vorrei che fosse vero. — La donna rivolse a Peron un sorriso stizzito. — Io sono una Immortale. E adesso lo sei anche tu. Ma non viviamo per sempre. Viviamo all’incirca millesettecento anni, stando alle nostre migliori stime correnti, se non veniamo uccisi in qualche modo lungo il percorso. È una delle cose che devi imparare. Anche adesso puoi venire ucciso con la stessa facilità di prima. Vivere nell’S-Spazio non ti proteggerà. Capito?
— Caa… pito. — Peron si sentiva la pelle del viso come se fosse stata tirata al massimo, e non poteva mostrare le emozioni che provava. Se lui era un Immortale, cos’era successo agli altri? Sarebbe sopravvissuto a Elissa per milleseicento anni? Nessuna buona notizia avrebbe potuto rendergli appetitoso quel pensiero. Sollevò la testa, ancora una volta quella strana sensazione , e guardò direttamente in faccia la donna. — Cos’è successo agli altri su Whirlygig?
— Non sono autorizzata a dirtelo. Ti ho detto che quello che Wilmer ha fatto per te ci ha causato più guai di quanto lui si sia mai sognato. Prima che ci sia permesso di dirti di più, dobbiamo avere l’approvazione del Quartier Generale del Settore, e questo significa un lungo viaggio. Stiamo già viaggiando da cinque ore, e ci vorranno due giorni prima che arriviamo là. Fino a che non saremo arrivati, dovrai essere paziente. Il mio paziente , in effetti. — Gli rivolse il suo primo, vero sorriso. — Puoi cominciare riposandoti un po’. Fra qualche minuto l’historex comincerà a fare effetto, e adesso ti darò un altro sedativo e un analgesico. Ordine: dai a quest’uomo cinque centimetri cubi di asfanol.
Niente di visibile, ma ancora una volta la sorpresa di qualcosa che gli penetrava nella coscia causandogli dolore. Peron non era affatto pronto ad addormentarsi, c’erano un centinaio di domande alle quali cercava risposta, e non sapeva da quale cominciare.
— Stiamo tornando alla Nave?
La donna parve trasalire, poi si mostrò divertita. — No. Non posso dirti molto, ma posso dirti una cosa. Stiamo facendo un viaggio molto più lungo. Il Quartier Generale di Settore è fuori del sistema di Cass, quasi a un anno-luce di distanza di Cassay e Pentecoste.
— E ci arriveremo in due giorni. Allora viaggiate davvero più veloci della luce.
Adesso la donna appariva molto a disagio. — Non dovrei dirti niente, io sono un medico , non un… dannato amministratore. — C’era irritazione contro qualcuno o qualcosa nel tono della sua voce, e Peron prese nota di quel particolare a futuro riferimento. — Ma noi non viaggiamo più veloci della luce. Nell’S-Spazio, la luce percorre quasi duemila anni-luce di distanza normale in uno dei nostri anni. Noi stiamo viaggiando soltanto ad una frazione della velocità della luce.
Peron rimase sconcertato a questo pensiero. Possibile che dicesse la verità? Se era così, Sol e Terra si trovavano soltanto a un paio di mesi di distanza. E se stavano viaggiando già da cinque ore, dovevano trovarsi nelle profondità dello spazio interstellare. Cominciava a sentirsi assonnato, ma d’un tratto provò lo struggente desiderio di vedere di nuovo Cassay. Come gli sarebbe apparso il panorama della stella a quell’immensa velocità?
— Cosa c’è che non va? — La donna aveva colto la sua espressione.
— Possiamo guardare fuori di qui, guardare le stelle?
Lei scosse la testa. — Talvolta provo io stessa quel desiderio. Quando ti sveglierai, dài un’occhiata alla stanza accanto. Là c’è un oblò che dà sull’esterno. Scoprirai che le cose hanno un aspetto piuttosto diverso nell’S-Spazio. Ma adesso devo andare. Il mio nome, a proposito, è Ferranti, dottoressa Olivia Ferranti. Ti vedrò spesso, fino a quando non saremo sicuri che ti sarai stabilizzato qui da noi. Tornerò domani. — Gli rivolse un cenno rassicurante del capo. — Sii paziente. Ordine: portami nel mio appartamento.
— Ma cosa…
Peron non si dette la briga di completare la frase. Se n’era andata, era svanita in un istante. Dopo altri trenta secondi, i farmaci fecero effetto e Peron piombò nel sonno.
Nella stanza dove aveva ripreso conoscenza la prima volta, non c’erano indumenti, cibo o bevande. C’era un terminale accanto al tavolo che, era ovvio, doveva comunicare con altre parti della nave, ma quando si svegliò la volta successiva Peron resistette al primo impulso che era quello di chiamare per chiedere qualcosa da mangiare. Era affamato e provava ancora quella strana sensazione di disorientamento, ma c’erano altre priorità più importanti.
Tutti i monitor accanto al tavolo erano ancora in funzione, ma adesso ricevevano dati telemetrici che avevano origine dai piccoli sensori collegati al suo corpo. Senza dubbio ritrasmettevano quei segnali a qualche computer centrale di controllo, ma era probabile che questo reagisse solamente in caso di emergenza. Peron giudicò che doveva disporre di qualche minuto, almeno, prima che le sue azioni venissero controllate di nuovo. Scivolò giù dal tavolo, impiegò qualche istante per recuperare l’equilibrio, e poi si diresse verso una delle due porte della stanza.
Questa conduceva a un lungo corridoio privo di finestre. Una scelta sbagliata. Tornò indietro e scoprì che l’altra porta si apriva su una stanza più grande, con un grande oblò trasparente a una estremità. Peron si avvicinò ad esso e guardò fuori.
Certamente si era aspettato qualcosa di diverso dal solito paesaggio stellare visto dall’interno del sistema di Cass; forse le costellazioni familiari, ma sottilmente distorte. Ma ciò che adesso si trovò a guardare era del tutto inesplicabile.
Al di là dell’oblò tutto il cielo era colmo d’un debole bagliore perlaceo. Pareva non offrire nessun modo per orientarsi, e in ogni direzione aveva la stessa luminosità uniforme. Niente stelle, nebulose, nubi di gas, galassie: l’intero universo era scomparso, smarrito in una foschia brillante e diffusa.
Peron sentì che la testa cominciava a girargli. Si trovava nell’S-Spazio, e il tutto era talmente diverso da qualunque cosa avesse mai immaginato da togliergli qualunque possibilità di prevedere la sua prossima mossa. Se era stato intrappolato e tenuto prigioniero, poiché era così che cominciava a concepire la sua situazione a bordo di quella nave, in qualunque ambiente normale forse avrebbe potuto assumere il controllo di se stesso e decidere delle proprie azioni. Ma lì, cosa poteva fare? Non c’era niente nella scienza di Pentecoste che anche soltanto accennasse a una possibilità del genere. Sy, assai più capace di lui in fatto di scienza, si era fatto beffe anche soltanto dell’idea…
Peron provò un attimo di fastidio. Se soltanto Sy si fosse trovato là, adesso, a constatare fino a che punto l’avevano portato le sue teorie…
Il resto della stanza mancava di arredi o di qualunque altra fonte d’informazioni utili. C’era una serie di piccole, misteriose porte, o pannelli, alla base della parete, ma non riuscì ad aprirle. Si voltò per tornare nell’altra stanza, e si ricordò di aver fame e sete. Rievocò la capacità della dottoressa Ferranti di far comparire le bevande dal nulla (e chiedi un po’ a Sy di spiegarti anche questo, visto che ci sei!). Era possibile che funzionasse anche per lui? Pareva che non ci fosse nessun rischio a provarci.
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