Robert Silverberg - Morire dentro

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Morire dentro: краткое содержание, описание и аннотация

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Morire dentro: è questa la sorte che attende David Selig, il telepate, profilandosi come un incubo all’orizzonte della sua esistenza. Una minaccia a un tempo psichica e biologica corrode i suoi poteri: e per Selig, abituato a «spiare» gli angoli più morbosi e reconditi dei suoi simili, a nutrirsi delle emozioni altrui, il lento affievolirsi delle proprie capacità è un graduale stillicidio. Robert Silverberg ci trasporta con questo romanzo (uno dei suoi ultimi) nella mente del telepate, sicché il lettore può provare, in «soggettiva», l’incredibile esperienza dl guardare in un altro universo, condividendo le emozioni dl una terza vista. Selig raggiunge cosi l’età in cui il suo dono potrebbe maggiormente giovargli: e invece si trova nuovamente respinto da una società che non è pronta per quelli come lui, e in cui anche il rapporto con un essere che possiede i suoi stessi poteri ESP diventa ambiguo e pericoloso. Moderno «Slan», David Selig si trova di fronte a un enigma troppo vasto per la sua fragile personalità: perchè sta perdendo il suo potere mentale? Si tratta solo di un male biologico, o di una minaccia più insidiosa? E che cosa sarà di lui al termine di questa incredibile «odissea nel pensiero»? Come ha scritto la rivista Analog: «Questo romanzo è intensamente umano… intensamente vero. I lettori ricorderanno
per una generazione, e forse ancor più».
Robert Silverberg non ha bisogno di presentazioni;
ha scritto di lui: «E il nostro autore migliore. Di volta in volta ha costantemente ampliato i parametri della fantascienza».

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— Alla salute — dice.

— Alla salute.

— Hai messo una bella musica. Un mucchio di gente non ci crederebbe che Schönberg può essere sensuale e tenero. Naturalmente, è lo Schönberg dei primi tempi.

— Sì — dico io. — I succhi romantici tendono a inaridire via via che invecchi, eh? Che cosa hai fatto in questi ultimi tempi, Jude?

— Non molto. Un mucchio delle solite vecchie cose.

— Come sta Karl?

— Non lo vedo più.

— Ah.

— Non te l’avevo detto?

— No — dico. — È la prima volta che lo sento.

— Non sono abituata a pensare che è necessario dirti le cose, Duv.

— Sarebbe meglio che ti ci abituassi. Tu e Karl…

— Stava diventando troppo insistente riguardo al matrimonio. Gli ho detto che era troppo presto, che non lo conoscevo abbastanza, che avevo paura di ingabbiare di nuovo la mia vita in una struttura che forse è sbagliata per me. Lui è restato offeso. Ha cominciato a farmi la predica su questo ritirarsi per complicare e rinviare le cose, sulla mania auto-distruttiva, un mucchio di sciocchezze del genere. L’ho guardato dritto negli occhi nel bel mezzo del suo sermone e l’ho visto come una specie di figura paterna; lo sai: grosso, pomposo, rigido, non un amante ma un mentore, un professore; non ne ho proprio bisogno per niente. Allora ho cominciato a pensare a quello che sarebbe stato tra dieci o dodici anni. Lui sui sessanta, e io ancora giovane. E mi sono resa conto che per noi non c’era futuro insieme. Gliel’ho detto il più gentilmente possibile. Non ha telefonato per dieci giorni o giù di lì. Penso che non telefonerà più.

— Mi spiace.

— Non è il caso, Duv. Ho fatto la cosa più intelligente. Ne sono sicura. Karl andava benissimo per me, però non avrebbe potuto essere per sempre. Il mio periodo-Karl. Un periodo sano. L’essenziale è non permettere che un periodo continui dopo che tu hai capito che è finito.

— Sì — dico io. — Certamente.

— Vuoi ancora un po’ di rum?

— Fra un po’.

— Che cosa mi dici di te? — chiede lei. — Parlami di te. Come te la cavi, adesso che… adesso che…

— Adesso che è finito il mio periodo di superuomo?

— Sì — dice lei. — È proprio finito, eh?

— Proprio. Tutto finito. Non c’è dubbio.

— E allora, Duv? Come ti senti da quando è successo?

Giustizia. Si sentono un mucchio di cose sulla giustizia, la giustizia di Dio. Lui ricerca i virtuosi. Lui tratta come immondizia gli empi. Giustizia? Dov’è la giustizia? Dov’è Dio, a questo punto? È proprio morto, oppure è soltanto assente, o distratto? Guarda la Sua giustizia. Manda un’inondazione in Pakistan. Zack, un milione di persone morte, gli adulteri e i vergini, gli uni e gli altri. Giustizia? Può darsi. Può anche darsi che le vittime, supposte innocenti, non fossero dopotutto così innocenti. Zack, la suora tutta dedita al lebbrosario si becca la lebbra, le sue labbra cadono a brandelli durante la notte. Giustizia. Zack, la cattedrale che la congregazione è andata costruendo negli ultimi 200 anni è ridotta a un cumulo di macerie da un terremoto il giorno prima di Pasqua. Zack: Zack. Dio ci ride in faccia. Questo è giustizia? Dove? In che senso? Voglio dire: prendi il mio caso. Non è che stia tentando di strapparvi un po’ di pietà, adesso; no, no. Voglio essere soltanto oggettivo. Ascoltate, non ho chiesto io di essere un superuomo. Sono stato forgiato così all’atto del mio concepimento. Un incomprensibile capriccio di Dio. Un capriccio che mi definì, mi diede forma, mi malformò, mi rese uno spostato, e io non avevo fatto niente per averlo, non avevo chiesto niente, assolutamente non lo avevo desiderato, a meno che voi pensiate alla mia ereditarietà genetica come una qualche specie di karma maligno, merda! È stata una contrazione involontaria puramente casuale. Dio disse: Che questo bimbo sia un superuomo, ed ecco! il giovane Selig fu un superuomo, in un’accezione ristretta del termine. Almeno per un certo tempo. Dio mi ha fatto per tutto quello che sarebbe successo: l’isolamento, la sofferenza, la solitudine, anche l’autocompassione. Giustizia? Ma dove? Il Signore dà, chissà perché, dannazione, e il Signore toglie. La qual cosa, appunto, Lui, adesso, ha fatto. Il potere se n’è andato. Sono assolutamente piatto, gente, piatto come voi e voi e voi. Non fraintendetemi: io accetto il mio destino, vi sono completamente rassegnato; non vi chiedo di sentirvi spiaciuti per me. Semplicemente ho bisogno di cavarci fuori un qualche significato, piccolo. Adesso che il potere se n’è andato, io chi sono? Come faccio a definire me stesso, adesso? Ho perduto la mia specialità, il mio potere, la mia vergogna, il motivo del mio isolamento. Tutto quello che mi è rimasto adesso è il ricordo di essere stato diverso. Le sue cicatrici. Che cosa si presume che faccia io adesso? Come faccio ad agganciarmi all’umanità adesso che la differenza se n’è andata e che io sono ancora qui? Quello è morto, io sopravvivo. Che strano scherzo mi ha fatto, Dio. Non è che io stia protestando, capitemi. Sto soltanto chiedendo fatti, con un tono di voce tranquillo, ragionevole. Sto cercando di capire qualcosa della giustizia divina. Penso che il vecchio arpista di Goethe avesse di te, Dio, la visione esatta. Tu ci butti nella vita, lasci che il pover’uomo cada nella colpa, e poi lo confini nella miseria. Perché ogni colpa è vendicata sulla Terra. Questo è un reclamo ragionevole. Tu, Dio, hai il potere definitivo, però rifiuti di avere la responsabilità definitiva. Questo è giusto? Penso che anch’io ho un ragionevole motivo di reclamo. Se c’è giustizia, perché una fetta così grossa della vita sembra ingiusta? Se veramente, Dio, sei al nostro fianco, perché ci dai un’esistenza di lacrime? Dov’è la giustizia per i bambini nati senza occhi? Per i bambini nati senza testa? Per il bambino nato con un potere che gli uomini non contavano di avere? Solo per chiedere, Dio. Accetto la tua decisione, credimi, mi inchino alla tua volontà, perché potrei anche… che scelta posso avere, dopo tutto?… Ma ho ancora il diritto di chiedere. Giusto?

Ehi, Dio? Dio? Mi stai ascoltando, Dio?

Penso proprio di no. Penso che a te non te ne frega niente. Dio, io penso che tu mi mandi a farmi fottere.

Di-dah-de-du-dah-di-da. La musica sta finendo. Armonie celestiali che riempiono la stanza. Tutto immerso in unità. Fiocchi di neve che turbinano dietro i vetri della finestra. Perfetto, Schönberg. Tu hai capito, almeno quando eri giovane. Hai colto la verità e l’hai messa in note. Io lo sento che cosa volevi dire. Non fare domande, hai detto. Accetta. Soltanto, accetta; è questo il motto. Accetta. Accetta. Qualunque cosa ti succeda: accetta.

Judith dice: — Claude Guermantes mi ha invitato ad andare a sciare con lui in Svizzera per Natale. Posso lasciare il bambino da un amico nel Connecticut. Però non ci andrò se tu hai bisogno di me, Duv. Stai bene? Puoi arrangiarti?

— Certo che posso. Non sono mica paralizzato, Jude. Ho mica persa la vista. Vai in Svizzera, se è questo che vuoi.

— Staremo via soltanto otto giorni.

— Sopravviverò.

— Quando ritorno, spero che traslocherai da quella baracca. Tu devi venire ad abitare da queste parti vicino a me. Dovremmo vederci di più.

— Può darsi.

— Potrei anche farti conoscere alcune mie amiche. Se la cosa ti interessa.

— Meraviglioso, Jude.

— Non sembri troppo entusiasta.

— Devi andarci piano — le dico. — Non buttarmi addosso un milione di cose. Ho bisogno di tempo per selezionarle.

— D’accordo. È come una nuova vita, non è vero, Duv?

— Una nuova vita. Sì. Una nuova vita, è proprio questo, Jude.

La tempesta di neve è violenta, adesso. Le macchine stanno scomparendo sotto i primi strati di bianco. All’ora di cena la radio, nelle previsione del tempo, parlava di un accumulo, prima del mattino, per uno spessore di una ventina di centimetri. Judith mi ha invitato a passare la notte qui, nella stanza della cameriera. Bene, perché no? Di tutte le volte, perché dovrei prenderla a calci proprio adesso? Resterò. In mattinata porteremo Pauly fuori nel parco, con la sua slitta, sopra la neve fresca. Sta proprio venendo giù, adesso. La neve è così bella. Copre tutto, pulisce tutto, in poco tempo purifica questa stanca città, consunta, e la sua stanca, logora popolazione. Non riesco a distogliere i miei occhi dalla scena. La mia faccia è incollata alla finestra. Tengo un bicchierino di brandy in una mano, ma non ci penso neanche a berlo, perché la neve mi ha afferrato nel suo ipnotico incantesimo.

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